La magia delle parole

Una foto che ho scattato durante una delle nostra passeggiate. Il bosco dischiude una vista panoramica sulla Vallesina. Massimo di spalle che contempla l’orizzonte.

Sbadalufo: numeroso, abbondante, in quantità enorme. Per esempio: “Mangiare a sbadalufo”. È un termine buffo e bizzarro che occasionalmente usava un mio caro amico, scomparso troppo presto. Credo sia un  termine dialettale della zona del fabrianese, ma non ne ho certezza. Non l’ho mai più sentito pronunciare. Rimane una parola dall’etimologia sconosciuta e misteriosa di cui non si trova traccia su Internet. È il mio personalissimo: ABRACADABRA. Una parola magica che mi fa rivivere la nostalgia di momenti spensierati e divertenti.

Il mio amico si chiamava Massimo, ma essendo Ingegnere era anche noto come l’Ing. Ci conoscemmo per motivi di lavoro. Aveva iniziato la sua carriera in IBM ed aveva sempre lavorato nel settore informatico. A livello professionale la stima fu immediata e reciproca e ben presto si sviluppò anche una sincera amicizia. I punti di contatto tra noi erano numerosi ed annullavano quasi venti anni di differenza d’età. Ci univa la passione per l’informatica, la lettura, la fisica, la curiosità, l’approccio ai problemi, la capacità di astrazione ed un certo senso dell’umorismo.

Per cinque anni lavorammo a stretto contatto, fu impegnativo, ma appagante. Spesso ci vedevamo a Fabriano e passavamo lunghe giornate nel suo ufficio in centro. Sempre gentile e disponibile, era un punto di riferimento insostituibile per tutti i suoi collaboratori che gli volevano molto bene. Per questa sua generosità veniva spesso risucchiato suo malgrado, in un vortice di impegni, telefonate ed interruzioni varie che gli impedivano di concentrarsi come avrebbe voluto. Fu in uno di questi momenti caotici che mi disse: “Allora Andrea. Quello che dovevamo cosare lo abbiamo cosato, adesso coso…” io risi e non potei che dirmi d’accordo con questa perla di astrazione.  

Entrare nel suo ufficio significava perdersi in un via vai di persone e voci che si accavallavano: un caos affascinante e divertente. Era lì che si consumavano le epiche schermaglie con i creativi. Lui recitava cantilenando: “Bisogna ricordare all’Art Director, che il Web è quadrato, non è curvo…” e la collega che per tutta risposta recitava: “Ricorda Massimo, che essere Ingegnere non è un sintomo, ma una diagnosi…”. Già, perché spesso i creativi facevano leggiadri voli pindarici, ma poi era lui che doveva dare forma e sostanza a quelle idee: un lavoro per niente facile. In fondo però questo è l’animo del nostro mestiere di progettisti, l’arte di trovare ogni volta quel delicato equilibrio tra astrazione e pragmatismo.

Quando lo conobbi aveva abbandonato le sigarette per la pipa e ciò, unito alla passione per il gioco del bridge, gli donava un fascino tipicamente inglese. Aveva sempre le mani occupate a maneggiare uno degli attrezzi che serviva ad ufficiare quel complicato rituale: il tabacco, lo scovolino e l’accendino. Così spesso capitava che nella confusione del momento, si dimenticasse ora l’uno ora l’altro, in giro per le scrivanie sotto fogli pieni di appunti.
La sua indole riflessiva e le sue pause nel formulare le frasi, si accordavano con i gesti lenti e pazienti che erano necessari per arrivare a produrre il primo sbuffo di fumo azzurrognolo. Ricordo anche il mio quaderno degli appunti che, aperto a distanza di tempo, rimandava ancora un sentore dall’aroma speziato del suo tabacco. Nella mia mente, lo rivedo ancora quando, verso ora di pranzo, mi diceva: “Dai, andiamoci a mangià na cosa…” accompagnando le parole ad un gesto con la testa. Così sgusciavamo fuori dall’ufficio dileguandoci. Percorrevamo strette viuzze in stile medievale per poi sbucare improvvisamente nella piazza principale di fronte alla fontana: uno spettacolo unico. La pausa pranzo era la nostra bolla protettiva. Un non luogo. Uno spazio tempo in cui niente e nessuno interrompeva le nostre chiacchiere.

Quando le nostre vite professionali si divisero, il nostro legame si distillò diventando pura amicizia. Quando ci incontravamo era solo per il piacere intellettuale che ne scaturiva. Facevamo le nostre lunghe passeggiate in montagna, immergendoci nella natura, ma sempre persi nei nostri ragionamenti tra informatica e vita privata accompagnati dal suo cane Pepe. Nel silenzio del bosco rievocavamo aneddoti e storie della nostra vita con reciproco divertimento. Senza rendercene conto avevamo inventato una versione estesa della nostra pausa pranzo. Era un po’ come essere sulla Luna ad ammirare la Terra, in quei luoghi riuscivamo a guardare alle vicende della vita in modo lucido e razionale. Non potrò mai scordare quando mi consigliò di guardare il video di Alessandro Barbero (detto il Prof.) su Caporetto. Fu per me una scoperta entusiasmante e solo ora colgo l’aspetto buffo di questa storia: l’Ing. mi fece scoprire il Prof. . 

Il tempo che abbiamo trascorso insieme mi ha arricchito umanamente e professionalmente. Custodisco con cura quei momenti felici e preziosi ed ogni volta che voglio riportarli alla memoria mi basta pronunciare la parola magica: SBADALUFO!

Un altro giro di giOstra

Image by Frank from Pixabay

Recentemente si è concluso il 3° ciclo di incontri del “Laboratorio di scrittura creativa e lettura espressiva” di Ostra (AN), una bella iniziativa ideata e condotta da Paolo Pirani. In ciascuna “lezione” alcuni esercizi a tempo da svolgere in aula e di solito un tema da sviluppare a casa. Il bilancio è ancora una volta molto positivo, perché i nostri piacevoli incontri hanno prodotto narrazioni stupefacenti e suggestive. Io stesso ho fatto tesoro dei numerosi stimoli raccolti strada facendo e ne ho tratto ispirazione per scrivere brani che a mio avviso funzionano.
A primavera prossima il ciclo si chiuderà ufficialmente con una sessione di lettura in pubblico in cui ciascuno sceglierà uno dei suoi componimenti.

Nel frattempo, riporto qui uno degli esercizi che ho svolto e che ha prodotto due buoni racconti a mio avviso. L’esercizio prevedeva di scegliere una poesia o un testo teatrale e su quella base creare una o più variazioni. Io ho scelto il testo dello spettacolo “Il racconto del Vajont” di Marco Paolini e Gabriele Vacis, in particolare le pagine 26 e 27 in cui viene tratteggiata la figura della giornalista e scrittrice Tina Merlin. Ex staffetta partigiana durante la seconda guerra mondiale, ha seguito la costruzione della diga fin dall’inizio denunciandone i rischi, andando sul posto e dando voce, con i suoi articoli, ai montanari di Erto e Casso. Il suo sforzo sarà vano e, dopo la tragedia della frana del 9 ottobre 1963, scriverà il libro “Sulla pelle viva” che prossimamente leggerò.
Ho visto più volte lo spettacolo di Paolini ed ogni volta ho i brividi. Ho scelto il frammento su cui lavorare a caso, ma non completamente. In quelle due pagine si parla dell’esperienza di andare in montagna, quindi è un tema che mi è caro. Avrei dovuto creare delle variazioni, ma più che altro mi sono lasciato ispirare liberamente e sono giunto a produrre due racconti brevi.

Ricordo

Immagine creata con Night Cafè Studio

Quando avevo otto anni, in autunno, mia nonna mi portò in montagna nella valle del Vajont. Ci alzammo che era ancora buio e faceva freddo. Partimmo a piedi da Erto e salimmo per un ripido sentiero. A me la montagna non è mai piaciuta, ma mia nonna ci teneva tanto e io la rispettavo. La salita non finiva più, non mi lamentai e continuai a camminare in silenzio. Mi stupì a pensare che, per l’età che aveva, sembrava animata da un’energia prodigiosa. Arrivammo dopo circa due ore in cima che albeggiava. Io mi sedetti sulle rocce per riposare e rifocillarmi. Lei se ne stava lì in piedi, muta, sfidando il vento gelido, con lo sguardo rivolto alle cime illuminate dai primi raggi del sole. Non so cosa stesse pensando, ma sembrava serena, in pace con il mondo. Poi sentimmo un verso acuto, lei alzò lo sguardo verso un falco che volteggiava nel cielo. Socchiuse gli occhi mentre sul suo volto compariva un sorriso enigmatico. In quel momento il suo viso sembrò ringiovanire.
Dopo la sua scomparsa, quando ero già grande, lessi i suoi libri e suoi articoli. Intrecciando quelle fonti ai miei ricordi ho potuto penetrare il suo mistero e credo di aver colto lo spirito guerriero che abitava in quella donna.
Allora, sono tornato in montagna, da solo. Ho ripercorso lo stesso sentiero ed una volta in cima, lei mi ha parlato.

Note

Ho trasfigurato la giornalista in una figura quasi sciamanica. Mi sono chiesto come la potesse vedere un’ipotetico nipote. Volevo indagare il problema della trasmissione di un credo di una passione da una generazioni all’altra.
La parola e la memoria possono aiutare, ma la consapevolezza vera può essere conquistata solo per propria volontà, compiendo un percorso.

Favola

Image by StockSnap from Pixabay

C’era una volta una ragazza che durante la seconda guerra mondiale aiutava i partigiani facendo la staffetta. Non aveva alcun super potere, se ne andava su e giù da sola per le montagne, su sentieri impervi con il rischio di essere presa dal nemico. Era un compito difficile, pericoloso, ma lei era coraggiosa e sentiva di lottare contro il male. Amava la montagna, perché dopo aver scarpinato per arrivare fin lassù, quando la valle spariva coperta dalle nuvole, la guerra per un momento cessava di esistere. C’era solo silenzio, il cielo limpido e le belle vette rocciose tutto intorno. In quei momenti il suo sguardo arrivava a vedere lontano fino ad intravedere un futuro migliore.
La guerra finì e quella ragazza diventò una giornalista, sempre in lotta contro ciò che considerava ingiusto. Cominciò fin da subito a seguire la vicenda controversa della costruzione della diga del Vajont. Cercò in tutti i modi di mettere in guardia l’opinione pubblica dai potenziali rischi, dando voce agli abitanti della zona, ma fu tutto inutile. Il male quella volta ebbe la meglio, ma non si diede per vinta. Capì che era chiamata ancora a dare un contributo, perché era intimamente legata a quelle persone e a quei luoghi. Così scrisse un libro in cui raccontava la vicenda dal punto di vista degli abitanti della montagna. Narrò quella dolorosa vicenda al mondo, affinché tutti sapessero e nulla del genere potesse più accadere.

Note

In questo caso ho mitizzato la giornalista facendone un’eroina. La protagonista di una favola in cui anche il singolo può dare un contributo e fare la differenza.

Le tracce del tempo

A Corinaldo in fondo al “Viale Dietro le Monache” si trova una balconata che guarda ad ovest. Da lì si gode di un panorama suggestivo che spazia dalle colline circostanti fino al gruppo del Monte Catria, questo luogo è noto come il “Murello”.

Corinaldo – Balconata panoramica detta il “Murello”
Gruppo del Monte Catria lambito da nuvole passeggere

Durante le mie passeggiate mi fermo spesso a godere di questa vista. Quei monti li conosco bene, sono salito spesso sulla loro vetta. Loro, docili e pazienti, mi lasciano credere di averli conquistati, ma è un’illusione.
Quando mi trovo in questo luogo vivo una magia particolare, perché ho l’opportunità di osservare tracce di epoche remote e percepire lo scorrere del tempo.

La prima traccia del tempo è “Porta Nova” che si trova di fronte al “Murello, è la principale via d’accesso al centro storico e risale all’epoca medievale.

Corinaldo – Porta Nova

La seconda traccia, meno evidente, sono le montagne stesse. Le immagino lì ad osservarci da sempre, ma in realtà non è così, anche loro hanno un’età, si sono formate circa sedici milioni di anni fa.

La terza traccia, più nascosta, la vedo abbassando lo sguardo sulla seduta in pietra del “Murello”, in un punto spicca la forma geometrica a spirale di un fossile di ammonite. Questo è l’ennesimo segno di un tempo ancora più antico, circa 250 milioni di anni, quando questi luoghi erano un ambiente marino tropicale.

Fossile di ammonite sulla seduta in pietra del “Murello”

Non so di che tipo di pietra si tratti, ma mi piace pensare che quel blocco di pietra venga direttamente dalle montagne che mi stanno di fronte e che sia stato sottratto dall’uomo al suo ambiente d’origine quasi fosse un trofeo. Un atto di arroganza che ha, come unico effetto, quello di renderci consapevoli della nostra insignificanza di fronte ad eventi che precedono l’esistenza stessa della nostra specie.

Recentemente ho pubblicato un ebook ( La natura il tempo e le stelle: Raccolta di poesie in metrica haiku ) che contiene un verso sulla lotta epica tra acqua e pietra:

Pazienza

Tanto tempo fa
acqua sfidò pietra, lei
rise, ma perse.

A prima vista l’acqua potrebbe sembrarne la protagonista, ma non è così. La capacità di erodere la pietra da parte dell’acqua è infinitesimale, ma questo potere viene amplificato dal tempo. È il tempo che rende possibile ciò che all’inizio sembrava solo ridicolo. Il tempo è il motore del cambiamento. Alcuni avvenimenti sono tangibili ai nostri occhi, altri sono lenti ed impercettibili e travalicano la nostra esistenza.
Per esempio un raggio di sole primaverile che ci scalda e che sparisce d’improvviso, perché coperto da una nuvola passeggera.
Oppure un mare tropicale che si prosciuga lentamente fino diventare un paesaggio fatto di montagne, colline e valli.

Riflettere sul tempo mi porta inevitabilmente ad interrogarmi sulla vita e sul suo significato.
Prendete un foglio bianco ed una penna, disegnate un punto e poi tracciate una linea retta verso destra, fino alla fine del foglio. A livello geometrico questa è una rappresentazione schematica della nostra vita: una semiretta.
Un segno diritto tracciato su carta che parte da un punto e corre idealmente all’infinito. Già idealmente.
Forse la sfida suprema a cui ciascuno è chiamato, è rendere la propria vita più ricca e complessa di una semplice linea nera su un foglio bianco.

La durata del ciclo di vita di un essere umano rispetto a quella di una montagna è davvero poca cosa. La nostra esistenza sulla linea del tempo nella scala delle ere geologiche è solo un minuscolo punto. Il tempo che abbiamo a disposizione è prezioso, quando sarà terminato lasceremo dei segni o tutto si ridurrà solo ad un semplice segmento? Io mi ribello a questa idea, abbiamo una grande unica occasione e non dobbiamo sprecarla.

Anni fa, idealmente ho deciso di spezzare quella linea nera in tanti piccoli pezzettini, ho cominciato a lavorarli uno ad uno, scaldandoli piegandoli e torcendoli fino a farli diventare lettere dell’alfabeto. Li sto avvicinando tra loro, pazientemente giorno dopo giorno, fino a formare parole frasi e concetti scritti. Alla fine ho scoperto che scrivere, oltre a rendere la mia vita più interessante, incidentalmente contribuisce a creare una traccia del mio vissuto e ciò mi aiuta ed esorcizzare, almeno in parte, lo spettro del tempo che passa.

A questo punto auguro a ciascuno di trovare un modo tutto personale per arricchire la propria vita e lasciare un segno.
Se poi vi capitasse di visitare Corinaldo, non dimenticate di passare al “Murello”, chissà magari ci si incontra.

Riferimenti

FonteIndirizzo
Portale turistico città di Corinalohttps://www.corinaldoturismo.it/
Come nasce una montagna: la storia del Monte Catria e dell’Appennino Umbro – Marchigianohttps://www.ingv.it/newsletter-ingv-n-8-dicembre-2019-anno-xiii/come-nasce-una-montagna-la-storia-del-monte-catria-e-dell-appennino-umbro-marchigiano
Riferimenti

La lezione del bosco

Sabato scorso decido di tornare a vedere una cascata molto suggestiva.
La prima volta ci andai ad agosto di due anni fa in una giornata molto calda. Trovai senza fatica la località e lasciata la moto mi avviai a piedi per il sentiero, seguendo le indicazioni trovate sul web. Ad un certo punto sbagliai direzione ed imboccai un deviazione a destra scendendo una ripida discesa. Una volta resomi conto dell’errore risalire fu molto faticoso ma raggiunsi la meta e ne valse la pena.

L’altro giorno la giornata era fresca. Prima di partire mi documento nuovamente sul tragitto e parto con la moto. Una volta sul posto mando un messaggio a mia moglie per informarla dove sono, perché la prudenza non è mai troppa. Mi incammino. Nella parte iniziale trovo i riferimenti previsti: la sbarra e più avanti la madonnina. Rassicurato, procedo per il sentiero con il mio bias mentale: “Non andare mai a destra”. Trovo varie deviazioni ma, fedele al mio mantra, prendo sempre a sinistra. Il bosco in questo periodo è rigoglioso e colorato, i crochi lilla spuntano del terreno e i fiori gialli del maggiociondolo dondolano pigri. Sono solo e nell’aria quieta echeggiano i cinguettii degli uccellini, un’atmosfera magica.
Il sentiero sale e a tratti si fa ripido. Non lo ricordavo così impegnativo, mi dico che la memoria può giocare brutti scherzi e vado avanti tenace. In una salita trovo uno strato di foglie secche che forma un cuscino cedevole di dieci centimetri, mai visto su questo sentiero, deve essersi formato nel tempo. Procedo sapendo di dover incontrare una fonte d’acqua, ma non la vedo ancora e mi sembra di avere fatto parecchia strada. Il sentiero per lo più è immerso nell’ombra e quando si apre per brevi tratti vedo il monte che mi sovrasta imponente. La rete dati cellulare, alle pendici di questo massiccio, è scarsa e non riesco ad avviare Google Maps quindi posso solo sperare di essere sul sentiero giusto.

Ad un certo punto il sentiero termina nel canalone sassoso di un torrente in secca. In una frazione di secondo mi passano per la testa tutta una serie di pensieri: “Chi ha spostato la cascata ? Non è possibile che il torrente sia in secca. Più in basso sento rumore d’acqua. Voglio parlare con il direttore!!”
La parte razionale del mio cervello ha presto la meglio su quella più antica ed istintiva e prendo immediatamente coscienza di aver sbagliato percorso. La cascata non è secca, lo so perché ho visto recenti filmati sui social. Posso solo ipotizzare che questo sentiero viaggi troppo alto sul fianco della montagna, per questo non ho intercettato il salto d’acqua. Commento tra me e me che certo qualche indicazione in più, lungo il percorso sarebbe stata utile. Armato di pazienza torno indietro ed al primo bivio e prendo a destra. Questo sentiero corre più basso, forse è quello giusto. Mi inoltro e poco dopo noto che il sentiero è devastato da frane, alberi caduti ed erba alta, tutto ciò mi fa pensare che anche questa deviazione sia errata. Torno indietro nuovamente, ma a questo punto faccio delle riflessioni. Fino a lì ho consumato parecchie energie e per tornare devo affrontare due salite ripide.
Rinunciare sarebbe un peccato, ma anche trovando la strada giusta, sarò poi in grado di fare l’intero percorso a ritroso ? Le cose belle richiedono fatica ed impegno, ma l’energia è una risorsa limitata, devo valutare bene quale sia il mio punto di non ritorno.
Torno indietro fino alla successiva deviazione. Non mi posso permettere una terza esplorazione con esito negativo. Mi fermo a prendere fiato all’incrocio, alzo un po’ gli occhi e lo vedo.
Un piccolo cartello quadrato rosso con una freccia che indica “Cascata”: che idiota. In Toscana avrebbero detto “Maremma maiala! Un’llo visto!”.

A questo punto non ho dubbi, la “tigna” prevale sulla stanchezza. Seguo il sentiero sicuro di essere nel giusto. Faccio un bel tratto di strada con almeno altre due discese ripide che si aggiungono al percorso che dovrò fare al ritorno, ma ormai pazienza. Sento il rumore dell’acqua sono vicino. Dopo un po’ infatti arrivo alla cascata e la sua vista mi ripaga di tutte le fatiche.
Nessuna frivola esultanza. Rimango in silenzio a contemplare quello spettacolo mentre il fragore dell’acqua riempie l’aria.
Una breve sosta per bere e poi riparto, perché le salite mi attendono e non voglio farle aspettare. Le salite come previsto si fanno sentire, però con passo lento costante le supero una dopo l’altra. E’ incredibile la strada che si riesce a fare a piedi nonostante la stanchezza. La discesa finale per arrivare al paesino è gioia pura. Adesso sono felice, ho raggiunto l’obiettivo.

A questo punto sono d’obbligo alcune riflessioni.
La prima esperienza negativa ha generato una distorsione mentale che mi ha indotto nuovamente fuoristrada, mi viene da dire che a volte: sbagliando si sbaglia.
La convinzione di essere sulla strada giusta mi ha impedito di valutare correttamente alcuni segnali tra cui proprio i cartelli: l’eccesso di focalizzazione mi ha impedito di cogliere segnali utili. E dire che questa è una vecchia lezione che pensavo di aver appreso.
Nonostante tutto ad un certo punto la realtà ha preso il sopravvento sulle mie false convinzioni ed ho adottato un approccio più razionale al problema.
Per raggiungere un obiettivo la motivazione è fondamentale, ma non basta, servono le risorse.
Le risorse sono limitate ed è importante tenerle sotto controllo. A volte fallire è meglio che insistere. Non importa quanto siano solide le tue convinzioni, se trovi evidenze che dicono il contrario devi essere pronto a cambiare idea. Non importa quanta strada hai fatto, se hai sbagliato direzione la prima cosa da fare è tornare indietro, proseguire non farebbe altro che peggiorare l’errore.
A questo punto spero solo di avere imparato la lezione e magari la terza volta sarà quella buona.

Gola di Jana

Un sabato primaverile soleggiato e ventoso.
Ci si vede a Corinaldo 9.30 siamo in tre:
Triumph Thunderbird, Yamaha XT, Suzuky SV le moto non potrebbero essere più diverse, ma quello che ci accomuna è la passione.
Brevi presentazioni, perché è pur sempre un gemellaggio tra due gruppi diversi di motociclisti.
Caffettino al bar. Si definisce l’itinerario di massima e via.

Si va per Ostra, troviamo traffico, ma non c’è fretta.
Superato il traffico si prosegue per Montecarotto.
L’asfalto è buono. Il sole splende ed accende i colori tutto intorno, il verde brillante del grano e i fiori rosa dei peschi.
Qualche folata di vento a disturbare la guida.

Da Pianello Vallesina si sale a Cupramontana, cosi’ evitiamo la SS76 e ci gustiamo una bella serie di curve. Si prosegue per Apiro e Frontale.
Sulla strada che sale a Pian dell’Elmo una breve sosta per il limite K-T (un approfondimento). Continuando a salire la temperatura si abbassa ed il cielo è sempre più cupo, in fondo la primavera è solo all’inizio. Superiamo i prati del San Vicino e scendiamo verso la valle per ritrovare una temperatura più mite. Questo è il tratto di strada più rovinato con l’asfalto saltato in vari punti e breccia in giro, ulteriore motivo per scendere con calma. Prima di arrivare a Matelica deviamo a Braccano, una piccola frazione famosa per i suoi murales.

Attraversiamo il paesino seguendo le indicazioni per la Gola di Jana. Per arrivare al parcheggio bisogna fare un breve tratto in breccia piuttosto stretto. Per fortuna il traffico è nullo e il fondo regolare andiamo piano e non incontriamo nessun problema.
Dal parcheggio in quarantacinque minuti a piedi si può arrivare all’abbazia di Roti.
Noi prendiamo un’altra direzione. Seguiamo il sentiero guadando il torrente ed in breve arriviamo alla gola ed alla sua cascata: per me è un posto magico in cui tornare ogni anno.
Qui alcune foto di Agosto 2021 con il torrente in secca.


Scattata qualche foto si torna al parcheggio e si riparte con destinazione Hard Pork di Castel Raimondo.
Si arriva in pochi minuti, qui ci concediamo una rilassante pausa con panino.

Si rientra per San Severino, Cingoli con sosta caffè con vista spettacolare sul mare.

Lungo la strada del ritorno ciascuno prende la via di casa e ci salutiamo con la promessa di replicare presto l’esperienza.

Radici

Corinaldo è un borgo medievale delle provincia di Ancona. Si trova nell’entroterra a venti chilometri dalla costa e a cinquanta chilometri dagli appennini centrali.
La sua architettura offre scorci suggestivi e la sua posizione consente di ammirare panorami che spaziano dal mare ai monti.
Il paese è circondato da colline ondulate i cui colori mutano al lento variare delle stagioni.
Io sono nato e vivo qui da sempre, ma subisco ancora il fascino di questi luoghi. E continuo a cercare sempre nuove angolazione da cui poter ammirare questi paesaggi, perché qui si vive immersi nella bellezza.

Monte Morcia

Salita al massiccio del Monte Catria e Acuto con la moto per sfuggire al caldo, passando per Buonconsiglio.
Breve passeggiata sul Monte Morcia in compagnia di mosche cavalline fastidiose, per il resto stupendo.

In futuro le autorità per sensibilizzare la popolazione all’uso consapevole dell’energia elettrica potrebbero decidere di rinominarlo Monte “Smorcia”.