Scorcio delle mura di Via del Fosso Corinaldo (AN)
Leggiadro si libra nel cielo, facendosi beffe degli arcigni guardiani pietrosi, eterni custodi di antiche mura
Non è la prima volta che un pennuto si infila nell’inquadratura in modo del tutto inaspettato, offrendo a posteriori una chiave di lettura completamente diversa di uno scatto. Come spesso accade, la poesia nasce dal bizzarro connubio di volontà e casualità. Quasi che il fato premi con schegge di bellezza gli ostinati che si affannano nella sua ricerca.
Questo aforisma sintetizza in modo efficace lo spaesamento che proviamo di fronte ad un mondo che muta.
La mia generazione è cresciuta in un periodo storico di pace, benessere e prosperità. I nostri figli sono nativi digitali e per loro, apparentemente nulla è impossibile “Basta un clic”, ne avevo già scritto qui. La società del consumo ci ha indotto a pensare alla vita come una strada piatta e diritta che si perde all’orizzonte. Come se vivessimo in uno spot: “Rilassati e goditi il panorama”. La realtà è diversa e sta emergendo in tutta la sua crudezza. Il mondo sta cambiando sotto i nostri occhi in modo tumultuoso e noi siamo lì attoniti a guardare. La strada si sta rivelando a tratti ripida, tortuosa, sconnessa. L’auto, che viaggiava silenziosa ad alta velocità, ora arranca ed emette rumori poco rassicuranti.
Le parole sono ciò che usiamo per descrivere il mondo, ma per abitare un mondo che cambia abbiamo bisogno di parole diverse. Quelle che ci servono per affrontare questa sfida non sono necessariamente nuove. Alcune sono finite in soffitta e se ne stanno chiuse in una cassa a prendere polvere. Ne abbiamo altre antiche di cui noi abbiamo dimenticato l’utilità e di cui i nostri figli ignorano perfino l’esistenza. Sono parole con un significato ed un valore, ma che abbiamo messo da parte, convinti non ci servissero più e che forse è ora di rispolverare. Me ne vengono in mente parecchie: pazienza, curiosità, desiderio, parsimonia, fragilità, noia. Tra le tante sceglierei: adattamento ed immaginazione.
La capacità di adattamento è ciò che rende possibile continuare a vivere reagendo ai mutamenti. L’abilità che garantisce la sopravvivenza nel presente.
L’immaginazione è ciò che distingue l’uomo dagli altri animali e che ci fa intravvedere un futuro diverso. È l’elemento che dà vita al desiderio, alla creatività e all’innovazione. Con l’immaginazione possiamo pensare un mondo diverso e questo sarà il primo passo verso la sua ricostruzione.
Un amico, a proposito della difficile arte della scrittura ama dire: “Dalla testa alla mano la strada è lunga”. Questa cosa non mi è mai sembrata tanto vera quanto oggi. Quanti millisecondi trascorrono da quando l’idea di un accordo musicale si forma nella mia mente a quando un segnale elettrico attraverso il sistema nervoso arriva ai muscoli delle mani e le anima per dare vita a quel suono? Secondo studi scientifici tra i 100 e 200 millisecondi, a seconda della condizione psicofisica. Nel mio caso ho la sensazione che ci voglia un’eternità. Chi l’avrebbe mai detto che l’elettricità, l’energia stessa del fulmine, potesse rallentare sotto il peso degli anni.
Agli inizi di carriera non mi sono mai chiesto come fosse possibile che le mie mani volassero così rapide al ritmo del pensiero, era quasi come se avessero vita propria e memoria dei passaggi. Sono stati tanti i momenti magici che mi sono goduto insieme alla band e al pubblico. Oggi quando cerco di eseguire alcuni assoli che mi hanno reso famoso in tutto il mondo, devo arrendermi all’evidenza che non riesco più. La mente conosce perfettamente la posizione che deve assumere la mano sinistra sulla tastiera della chitarra, la corda da pizzicare, il ritmo e l’effetto da imprimere con la mano destra, ma quello che mi arriva all’orecchio non è la musica che ho pensato, perché i muscoli reagiscono più lentamente. Eppure, quella melodia l’ho creata io una vita fa, non la posso dimenticare, l’ho costruita nota su nota. Ora mi dovrei pentire di avere scritto passaggi troppo arditi, che non riesco più ad eseguire al massimo livello? No. Sono le regole del gioco, ma me ne rendo conto solo ora.
La musica in definitiva è solo un’idea che si trasforma in un’onda sonora ed eventualmente in un’emozione, si tratta di un processo di trasformazione. C’è lo strumento e c’è il musicista, li devi combinare insieme, ma suonare è un’operazione dannatamente complessa e faticosa. Come si fa ad essere così ingenui e scegliere un lavoro così intimamente legato alla salute psicofisica? Chiunque potrebbe dirti che ad un certo punto, semplicemente non ce la farai più, proprio come accade agli atleti. Già. Ma un lavoro così non lo scegli; è una vocazione a cui è impossibile sottrarsi. Se qualcuno, da ragazzo, mi avesse messo in guardia, non lo avrei di certo ascoltato. Se non avessi seguito questa insana passione per la musica, forse ora sarei rotto e consumato per avere fatto l’operaio, quindi mi considero un privilegiato.
Fare musica è un lavoro affascinante in tutte le sue fasi: la scrittura, l’arrangiamento, la registrazione in studio e poi i concerti dal vivo. Certo ci sono anche dei prezzi da pagare. Per esempio, ripetere all’infinito certi successi, anche se non li senti più tuoi, anche se non ce la fai più. Già perché i fan dicono di amarti, ma il loro è un amore tossico che li rende spietati. Non accettano l’idea che la vita vada avanti e che tu cresca come persona e come artista. Vorrebbero che suonassi le hit che ti hanno reso famoso, come fossi un jukebox a gettone per sempre. La discografia da questo punto di vista, per un lungo periodo ha funzionato bene. L’idea era di eseguire una volta in studio un brano, inciderlo su un supporto e riprodurlo a piacere. In quell’epoca i tour erano un diversivo divertente, poi è arrivato il formato digitale ed ha distrutto l’editoria musicale. Ad oggi l’unico modo per sostenere il business sono i concerti dal vivo. Naturale, tutti cercano l’esperienza intima, quindi sei chiamato ad esibirti in giro per il mondo con la band. Ciascuno vorrebbero sentirti suonare al massimo livello, lo stesso dei tuoi inizi di carriera. Ciò non è umanamente possibile, ma viviamo nella società che vorrebbe dimenticare il tempo, il decadimento e la morte: tutti elementi strettamente connessi alla nostra natura di esseri umani.
Ci ho provato per amore del pubblico, ma suonare certe canzoni non è più istintivo. Devo concentrarmi per cercare ogni singolo accordo e certi passaggi comunque non riescono più come vorrei. Mi sono chiesto se ciò avesse ancora senso. È veramente frustrante sperimentare che con cinquanta anni di carriera alle spalle, la tua performance invece di migliorare peggiora. Senza contare che le stesse persone che cercano l’esperienza diretta, passano gran parte del concerto a riprenderti con lo smartphone, invece di godere di quel momento unico e irripetibile, come sarebbe normale aspettarsi. Per qualche artista il successo è rimanere congelato in un personaggio, tentando di rimanere identico a sé stesso immutabilmente: stesso abbigliamento, stesso ciuffo, stesse canzoni. Non fa per me. Io quando mi vedo da giovane che salto sul palco smilzo e capelluto, faccio fatica a riconoscermi. Non mi interessa che il pubblico mi voglia vedere ancora così, non è possibile, sarei solo un fantasma del tempo che fu.
Da questo punto di vista ho avuto fortuna, avevo le idee chiare fin dall’inizio e ho evitato di essere risucchiato dal business. Ho seguito con coraggio la mia strada, mi sono evoluto come persona e come artista. Ho seguito un percorso che mi ha portato a spaziare tra generi musicali diversi. Ho semplicemente assecondato la mia natura, rallentato il ritmo e cercato sonorità diverse. Ormai ho preso atto che certi brani non riesco più a suonarli; quindi, ho interrotto le tournée che alla mia età sono pesanti, ma continuerò ad incidere in studio.
Ho avuto una carriera fantastica che ha seguito la curva della vita. Con l’età di solito si tende a rallentare, subentra una sensibilità diversa, più acuta. Qualcosa che ti consente di apprezzare dettagli prima insignificanti. Credo sia normale. Avere meno tempo davanti a te, rende il tempo che rimane più prezioso e cerchi di viverlo in modo diverso. Invece di prendere a morsi la vita, la assapori lentamente, con l’illusione di dilatare quei momenti. A livello artistico ciò che sono oggi è il risultato di una trasformazione lenta e progressiva che è iniziata con la mia carriera da solista. È per questo che posso continuare a scrivere e suonare le mie ballate orgogliosamente. La mia non è stata una ritirata dalle scene, ma una scelta ponderata e consapevole. La musica che suono oggi mi rappresenta, sono io. So che non piace a tutti, ma questo non è mai stato un problema. Piacere non è la finalità ultima di un artista. L’artista non ha altra scelta che esprimere sé stesso, incontrare il favore del pubblico è un dettaglio indipendente dalla sua volontà.
Quando sono nel mio studio con la mia collezione di chitarre le osservo e non posso fare a meno di sorridere. Con ciascuna di esse è stato un amore travolgente, ora quel sentimento è vivo ma si è addolcito. Così sono qui, con la mia chitarra preferita appoggiata sulle gambe e guardo le mie mani a cui devo tutto. Non posso che ringraziarle per tutta la musica che hanno contribuito a scrivere e a suonare finora. Le perdono per quella velocità magica a cui mi avevano abituato e che oggi non posso più sperimentare. Quell’incanto si è spezzato e non posso più evocarlo, ma finché è durato è stato bellissimo. In fondo questa è una grande lezione di vita, le cose cambiano e noi non possiamo fare altro che cambiare con loro. È inevitabile. Non ho rammarichi, in fondo io mi sono sempre sentito più un cantastorie che un musicista; perciò, finché avrò voce potrò continuare a fare ciò che amo. A voi che mi avete seguito fin qui, giuro che continuerò a suonare al meglio delle mie possibilità ciò che sento in questo mio cuore ancora dannatamente giovane.
Recentemente si è concluso il 3° ciclo di incontri del “Laboratorio di scrittura creativa e lettura espressiva” di Ostra (AN), una bella iniziativa ideata e condotta da Paolo Pirani. In ciascuna “lezione” alcuni esercizi a tempo da svolgere in aula e di solito un tema da sviluppare a casa. Il bilancio è ancora una volta molto positivo, perché i nostri piacevoli incontri hanno prodotto narrazioni stupefacenti e suggestive. Io stesso ho fatto tesoro dei numerosi stimoli raccolti strada facendo e ne ho tratto ispirazione per scrivere brani che a mio avviso funzionano. A primavera prossima il ciclo si chiuderà ufficialmente con una sessione di lettura in pubblico in cui ciascuno sceglierà uno dei suoi componimenti.
Nel frattempo, riporto qui uno degli esercizi che ho svolto e che ha prodotto due buoni racconti a mio avviso. L’esercizio prevedeva di scegliere una poesia o un testo teatrale e su quella base creare una o più variazioni. Io ho scelto il testo dello spettacolo “Il racconto del Vajont” di Marco Paolini e Gabriele Vacis, in particolare le pagine 26 e 27 in cui viene tratteggiata la figura della giornalista e scrittrice Tina Merlin. Ex staffetta partigiana durante la seconda guerra mondiale, ha seguito la costruzione della diga fin dall’inizio denunciando i rischi, andando sul posto e dando voce, con i suoi articoli, ai montanari di Erto e Casso. Il suo sforzo sarà vano e, dopo la tragedia della frana del 9 ottobre 1963, scriverà il libro “Sulla pelle viva” che prossimamente leggerò. Ho visto più volte lo spettacolo di Paolini ed ogni volta ho i brividi. Ho scelto il frammento su cui lavorare a caso, ma non completamente. In quelle due pagine si parla dell’esperienza di andare in montagna, quindi è un tema che mi è caro. Avrei dovuto creare delle variazioni, ma più che altro mi sono lasciato ispirare liberamente e sono giunto a produrre due racconti brevi.
Quando avevo otto anni, in autunno, mia nonna mi portò in montagna nella valle del Vajont. Ci alzammo che era ancora buio e faceva freddo. Partimmo a piedi da Erto e salimmo per un ripido sentiero. A me la montagna non è mai piaciuta, ma mia nonna ci teneva tanto e io la rispettavo. La salita non finiva più, non mi lamentai e continuai a camminare in silenzio. Mi stupì a pensare che, per l’età che aveva, sembrava animata da un’energia prodigiosa. Arrivammo dopo circa due ore in cima che albeggiava. Io mi sedetti sulle rocce per riposare e rifocillarmi. Lei se ne stava lì in piedi, muta, sfidando il vento gelido, con lo sguardo rivolto alle cime illuminate dai primi raggi del sole. Non so cosa stesse pensando, ma sembrava serena, in pace con il mondo. Poi sentimmo un verso acuto, lei alzò lo sguardo verso un falco che volteggiava nel cielo. Socchiuse gli occhi mentre sul suo volto compariva un sorriso enigmatico. In quel momento il suo viso sembrò ringiovanire. Dopo la sua scomparsa, quando ero già grande, lessi i suoi libri e suoi articoli. Intrecciando quelle fonti ai miei ricordi ho potuto penetrare il suo mistero e credo di aver colto lo spirito guerriero che abitava in quella donna. Allora, sono tornato in montagna, da solo. Ho ripercorso lo stesso sentiero ed una volta in cima, lei mi ha parlato.
Note
Ho trasfigurato la giornalista in una figura quasi sciamanica. Mi sono chiesto come la potesse vedere un’ipotetico nipote. Volevo indagare il problema della trasmissione di un credo di una passione da una generazioni all’altra. La parola e la memoria possono aiutare, ma la consapevolezza vera può essere conquistata solo per propria volontà, compiendo un percorso.
C’era una volta una ragazza che durante la seconda guerra mondiale aiutava i partigiani facendo la staffetta. Non aveva alcun super potere, se ne andava su e giù da sola per le montagne, su sentieri impervi con il rischio di essere presa dal nemico. Era un compito difficile, pericoloso, ma lei era coraggiosa e sentiva di lottare contro il male. Amava la montagna, perché dopo aver scarpinato per arrivare fin lassù, quando la valle spariva coperta dalle nuvole, la guerra per un momento cessava di esistere. C’era solo silenzio, il cielo limpido e le belle vette rocciose tutto intorno. In quei momenti il suo sguardo arrivava a vedere lontano fino ad intravedere un futuro migliore. La guerra finì e quella ragazza diventò una giornalista, sempre in lotta contro ciò che considerava ingiusto. Cominciò fin da subito a seguire la vicenda controversa della costruzione della diga del Vajont. Cercò in tutti i modi di mettere in guardia l’opinione pubblica dai potenziali rischi, dando voce agli abitanti della zona, ma fu tutto inutile. Il male quella volta ebbe la meglio, ma non si diede per vinta. Capì che era chiamata ancora a dare un contributo, perché era intimamente legata a quelle persone e a quei luoghi. Così scrisse un libro in cui raccontava la vicenda dal punto di vista degli abitanti della montagna. Narrò quella dolorosa vicenda al mondo, affinché tutti sapessero e nulla del genere potesse più accadere.
Note
In questo caso ho mitizzato la giornalista facendone un’eroina. La protagonista di una favola in cui anche il singolo può dare un contributo e fare la differenza.
Qualche tempo fa prendo coraggio e consiglio la canzone “Sparring Partner” di Paolo Conte ad un collega di trenta anni. La reazione non si fa attendere: “Ma che roba è ?”. Gli dico: “E’ poesia in musica” e lui: “Ma di cosa parla?”. Provo a spiegargli cosa credo di avere capito, ma non lo convinco. In effetti non mi sono mai soffermato troppo sul significato di questa canzone. Questa cosa mi fa riflettere: è veramente così importante che una canzone abbia un senso?
La bellezza spesso è indecifrabile. Di fronte ad un’opera d’arte avvertiamo le sensazioni che essa induce in noi, il suo effetto trasformativo, ma raramente riusciamo a svelarne i meccanismi. Le canzoni di Paolo Conte per me hanno questo fascino. La musica del piano si amalgama con un testo criptico dal significato sfuggente, ma nell’insieme evocativo. Le parole sono quasi un’estensione delle note, non sempre hanno un significato, ma contribuiscono a creare una suggestione. Un incantesimo, parole dal significato enigmatico, ma capaci di stimolare, in chi le ascolta, l’immaginazione.
Canzone “Sparring Partner” di Paolo Conte
Testo “Sparring partner” di Paolo Conte
È un macaco senza storia Dice lei di lui
Che gli manca la memoria In fondo ai guanti bui
Ma il suo sguardo è una veranda Tempo al tempo e lo vedrai Che si addentra nella giungla No, non incontrarlo mai
Ho guardato in fondo al gioco Tutto qui, ma sai
Sono un vecchio sparring partner E non l’ho visto mai
Una calma più tigrata Più segreta di così
Prendi il primo pullmann, via Tutto il reso è già poesia
Avrà più di quarant’anni E certi applausi ormai
Son dovuti per amore Non incontrarlo mai
Stava lì nel suo sorriso A guardar passare i tram Vecchia pista da elefanti Stesa sopra al macadàm
Recentemente, parlando con un’amica appassionata di scrittura, le ho detto scherzando: “La scrittura è pazzia”.
Come spesso accade, le cose dette per divertimento tendono a svelare verità più profonde. Forse perché le battute ci spingono ad oltrepassare certi limiti entrando senza volerlo nel territorio sconfinato della creatività. Questo fatto mi ha indotto a riflettere ancora una volta sulla scrittura.
Scrivere è un atto creativo non comune, quasi bizzarro. In effetti chi scrive è un creatore di storie, perciò sperimenta la vertigine di essere una divinità perché decide lo sviluppo degli eventi ed il destino dei suoi personaggi. Ha facoltà di viaggiare nel tempo e nello spazio e può arrivare a sovvertire la storia stessa, per esempio essere Napoleone e vincere a Waterloo.
La scrittura viene paragonata alla modellazione della creta ma, utilizzando come materia prima idee e concetti, gode del vantaggio di essere del tutto priva di vincoli fisici. Questo la rende illimitata ed un potere del genere rasenta la follia pura. La guerra viene definita come espressione della creatività distruttrice, la scrittura al contrario può essere considerata l’espressione della creatività costruttrice, perché generatrice di universi. Difatti, nonostante la famosa frase: “Ne uccide più la penna che la spada”, quando qualcuno perisce in un racconto si tratta solo di finzione narrativa.
Da qualche tempo faccio parte di un gruppo di appassionati di scrittura. Ci riuniamo periodicamente e, sotto la guida del nostro direttore, che ci fornisce spunti e suggestioni, proviamo a costruire piccole storie. Il nostro è un Laboratorio di Scrittura Creativa, abbreviato L.S.C.. La sigla ricorda un famoso acido psichedelico chissà, forse la nostra fervida immaginazione è il risultato dell’assunzione di questa fantomatica sostanza che stimola la creatività senza avere altri effetti collaterali.
In fondo si scrive anche per dare un senso altro alla realtà che viviamo. Un tentativo di evadere da questo mondo, costruendone uno alternativo. Anche la follia è una sorta di fuga dalla realtà. Quindi si, la scrittura è pazzia. Ma tutto sommato, tra le varie forme di pazzia tra cui scegliere, è quella che preferisco.
Scrivo con una certa regolarità da alcuni anni e quando l’ispirazione bussa alla mia porta l’accolgo sempre con il massimo rispetto, cercando di onorarla dandole forma scritta.
Credo che chi scrive, all’inizio lo faccia soprattutto per sé, perché ne sente l’esigenza e perciò lo farebbe anche se non ci fosse nessuno a leggerlo. Superata questa fase iniziale però, avere dei lettori ed essere apprezzati è importante, perché contribuisce a dare valore a quell’atto e ne alimenta la fiamma. Praticare la scrittura, nel tempo mi ha indotto più volte ad interrogarmi sulle dinamiche che si instaurano tra chi scrive e chi legge e con mia sorpresa continuano ad emergere aspetti affascinanti.
Lo scrittore, nell’atto di condividere con il mondo le sue invenzioni, crea contenuti e li irradia nell’etere come fossero onde radio, senza avere certezza di chi capterà quel segnale. La maggior parte delle volte quell’onda si disperde nello spazio senza produrre effetti evidenti, ma qualche volta viene raccolta produce un effetto e rimbalza sotto forma di feedback, creando un eco di ritorno. Questa immagine mi hanno indotto a pensare lo scrittore come fosse un radar. I suoi scritti sono un sistema per scandagliare il mondo circostante nel tentativo di mettersi in contatto con persone sintonizzate sulla stessa frequenza. Chi scrive quindi, non lo fa per la ricerca di consenso e di apprezzamento, ma perché va alla ricerca di persone con una sensibilità affine, con cui condividere esperienze. È una sorta di esplorazione dell’animo umano, alla ricerca di propri simili, con cui creare connessioni di valore.
A seguire alcuni elementi che probabilmente hanno influenzato il filo dei miei pensieri:
Il monolite nero del racconto “La sentinella” di Artur C. Clarke: un manufatto alieno capace di innescare l’evoluzione della specie umana e di valutarne i progressi.
Il programma scientifico spaziale Voyager che nel 1977 ha lanciato due sonde nello spazio per esplorare il sistema solare con la speranza di entrare in contatto con altre forme di vita .
Chi scrive è mosso da un’energia misteriosa chiamata ispirazione. Non sappiamo da dove arrivi, né perché si manifesti e non riusciamo a controllarla. È come un vento che si alza improvviso ed impetuoso per poi tacere inaspettatamente. Quando soffia, cambia repentino la sua direzione. Nessuno è in grado di invocarlo o di prevederne l’arrivo ed è pazzia pensare di fermarlo.
Lo scrittore è come un marinaio solitario a bordo di un guscio di noce, perso nel mezzo dell’oceano. Spesso la vela giace pigra ed inanimata e la sua barca si lascia trasportare dalla corrente. Con il mare in bonaccia l’estro creativo è sospeso, quasi un’arte dimenticata.
A volte mentre il caldo è soffocante un alito di vento gli accarezza la pelle sudata. Allora alza gli occhi e vede la vela allegra rianimarsi. Il vento rinforza, ed in breve tempo la barca guizza e acquista velocità. La direzione? Non importa, dopo quell’immobilità, ciò che conta è fendere le onde. Felice si abbandona all’ebbrezza del momento e sorride compiaciuto, manovrando la barra del timone. È solo un’ingenua illusione: il vento lo sta portando dove vuole. Lui può solo cercare di utilizzarlo al meglio, ma non avendo una bussola per orientarsi é inutile preoccuparsi della direzione. In questi momenti un’energia speciale lo pervade. Un qualunque elemento, di norma insignificante, riesce a mettere in moto un processo creativo che produce un pensiero. Quel pensiero si materializza in una sequenza di parole che esprimono un significato e godono di una certa un’armonia musicale. L’unica cosa è assecondare questo vento. Ma dove lo sta conducendo? Nessuno lo sa, ma in fondo questo è un fatto irrilevante. Forse sta addirittura girando a vuoto, ma che importa. Il suo è un viaggio che in realtà si fa da fermo, dentro sé stesso. Di certo cavalcare quel vento lo fa sentire più vivo.
A volte dura un attimo e non riesce ad afferrarlo. Altre volte, lo travolge con la sua furia e non può domarlo. Lo brama e lo teme al tempo stesso, perché è un’energia potente di cui avere rispetto. Una forza che reclama costanza ed ostinazione, perché se non esci in mare ogni giorno, quel vento, quando si alzerà, non ti troverà pronto. E allora sarà solo un vento qualunque, uno di quelli che scompiglia le fronde degli alberi, poetico, ma del tutto inutile perché non darà vita ad un’opera.
In fondo, chi scrive è come se si trovasse sempre in mezzo a quel mare, ad attendere paziente e speranzoso che si alzi ancora quel vento magico che si chiama ispirazione.
Questa foto nasce con l’intento di cogliere un panorama suggestivo. Mentre ero in procinto di scattare ho pensato: “Mannaggia, quel filo mi rovina l’inquadratura, ma scatto lo stesso”. Poi il caso ha voluto che nella scena entrassero le rondini. Così, qualche giorno dopo, quando ho rivisto la foto, il suo significato surreale mi è apparso chiaro. Quel filo che pende nel vuoto, mi ha subito fatto pensare alla lenza di una canna di qualcuno che pesca rondini nel cielo-mare di primavera, usando un lampione cittadino come una lampara. Se tutto ciò vi sembra bislacco, ricordate che siamo a Corinaldo, dove tutto è possibile.
Da questa esperienza ho tratto un’importante lezione sulla fotografia, un’immagine può assumere a posteriori un significato del tutto inaspettato ed indipendente dalla volontà di chi ha scattato la foto.
Gestisci Consenso
Per fornire le migliori esperienze, utilizziamo tecnologie come i cookie per memorizzare e/o accedere alle informazioni del dispositivo. Il consenso a queste tecnologie ci permetterà di elaborare dati come il comportamento di navigazione o ID unici su questo sito. Non acconsentire o ritirare il consenso può influire negativamente su alcune caratteristiche e funzioni.
Funzionale
Sempre attivo
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono strettamente necessari al fine legittimo di consentire l'uso di un servizio specifico esplicitamente richiesto dall'abbonato o dall'utente, o al solo scopo di effettuare la trasmissione di una comunicazione su una rete di comunicazione elettronica.
Preferenze
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per lo scopo legittimo di memorizzare le preferenze che non sono richieste dall'abbonato o dall'utente.
Statistiche
L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici.L'archiviazione tecnica o l'accesso che viene utilizzato esclusivamente per scopi statistici anonimi. Senza un mandato di comparizione, una conformità volontaria da parte del vostro Fornitore di Servizi Internet, o ulteriori registrazioni da parte di terzi, le informazioni memorizzate o recuperate per questo scopo da sole non possono di solito essere utilizzate per l'identificazione.
Marketing
L'archiviazione tecnica o l'accesso sono necessari per creare profili di utenti per inviare pubblicità, o per tracciare l'utente su un sito web o su diversi siti web per scopi di marketing simili.