La magia delle parole

Una foto che ho scattato durante una delle nostra passeggiate. Il bosco dischiude una vista panoramica sulla Vallesina. Massimo di spalle che contempla l’orizzonte.

Sbadalufo: numeroso, abbondante, in quantità enorme. Per esempio: “Mangiare a sbadalufo”. È un termine buffo e bizzarro che occasionalmente usava un mio caro amico, scomparso troppo presto. Credo sia un  termine dialettale della zona del fabrianese, ma non ne ho certezza. Non l’ho mai più sentito pronunciare. Rimane una parola dall’etimologia sconosciuta e misteriosa di cui non si trova traccia su Internet. È il mio personalissimo: ABRACADABRA. Una parola magica che mi fa rivivere la nostalgia di momenti spensierati e divertenti.

Il mio amico si chiamava Massimo, ma essendo Ingegnere era anche noto come l’Ing. Ci conoscemmo per motivi di lavoro. Aveva iniziato la sua carriera in IBM ed aveva sempre lavorato nel settore informatico. A livello professionale la stima fu immediata e reciproca e ben presto si sviluppò anche una sincera amicizia. I punti di contatto tra noi erano numerosi ed annullavano quasi venti anni di differenza d’età. Ci univa la passione per l’informatica, la lettura, la fisica, la curiosità, l’approccio ai problemi, la capacità di astrazione ed un certo senso dell’umorismo.

Per cinque anni lavorammo a stretto contatto, fu impegnativo, ma appagante. Spesso ci vedevamo a Fabriano e passavamo lunghe giornate nel suo ufficio in centro. Sempre gentile e disponibile, era un punto di riferimento insostituibile per tutti i suoi collaboratori che gli volevano molto bene. Per questa sua generosità veniva spesso risucchiato suo malgrado, in un vortice di impegni, telefonate ed interruzioni varie che gli impedivano di concentrarsi come avrebbe voluto. Fu in uno di questi momenti caotici che mi disse: “Allora Andrea. Quello che dovevamo cosare lo abbiamo cosato, adesso coso…” io risi e non potei che dirmi d’accordo con questa perla di astrazione.  

Entrare nel suo ufficio significava perdersi in un via vai di persone e voci che si accavallavano: un caos affascinante e divertente. Era lì che si consumavano le epiche schermaglie con i creativi. Lui recitava cantilenando: “Bisogna ricordare all’Art Director, che il Web è quadrato, non è curvo…” e la collega che per tutta risposta recitava: “Ricorda Massimo, che essere Ingegnere non è un sintomo, ma una diagnosi…”. Già, perché spesso i creativi facevano leggiadri voli pindarici, ma poi era lui che doveva dare forma e sostanza a quelle idee: un lavoro per niente facile. In fondo però questo è l’animo del nostro mestiere di progettisti, l’arte di trovare ogni volta quel delicato equilibrio tra astrazione e pragmatismo.

Quando lo conobbi aveva abbandonato le sigarette per la pipa e ciò, unito alla passione per il gioco del bridge, gli donava un fascino tipicamente inglese. Aveva sempre le mani occupate a maneggiare uno degli attrezzi che serviva ad ufficiare quel complicato rituale: il tabacco, lo scovolino e l’accendino. Così spesso capitava che nella confusione del momento, si dimenticasse ora l’uno ora l’altro, in giro per le scrivanie sotto fogli pieni di appunti.
La sua indole riflessiva e le sue pause nel formulare le frasi, si accordavano con i gesti lenti e pazienti che erano necessari per arrivare a produrre il primo sbuffo di fumo azzurrognolo. Ricordo anche il mio quaderno degli appunti che, aperto a distanza di tempo, rimandava ancora un sentore dall’aroma speziato del suo tabacco. Nella mia mente, lo rivedo ancora quando, verso ora di pranzo, mi diceva: “Dai, andiamoci a mangià na cosa…” accompagnando le parole ad un gesto con la testa. Così sgusciavamo fuori dall’ufficio dileguandoci. Percorrevamo strette viuzze in stile medievale per poi sbucare improvvisamente nella piazza principale di fronte alla fontana: uno spettacolo unico. La pausa pranzo era la nostra bolla protettiva. Un non luogo. Uno spazio tempo in cui niente e nessuno interrompeva le nostre chiacchiere.

Quando le nostre vite professionali si divisero, il nostro legame si distillò diventando pura amicizia. Quando ci incontravamo era solo per il piacere intellettuale che ne scaturiva. Facevamo le nostre lunghe passeggiate in montagna, immergendoci nella natura, ma sempre persi nei nostri ragionamenti tra informatica e vita privata accompagnati dal suo cane Pepe. Nel silenzio del bosco rievocavamo aneddoti e storie della nostra vita con reciproco divertimento. Senza rendercene conto avevamo inventato una versione estesa della nostra pausa pranzo. Era un po’ come essere sulla Luna ad ammirare la Terra, in quei luoghi riuscivamo a guardare alle vicende della vita in modo lucido e razionale. Non potrò mai scordare quando mi consigliò di guardare il video di Alessandro Barbero (detto il Prof.) su Caporetto. Fu per me una scoperta entusiasmante e solo ora colgo l’aspetto buffo di questa storia: l’Ing. mi fece scoprire il Prof. . 

Il tempo che abbiamo trascorso insieme mi ha arricchito umanamente e professionalmente. Custodisco con cura quei momenti felici e preziosi ed ogni volta che voglio riportarli alla memoria mi basta pronunciare la parola magica: SBADALUFO!

Sparring Partner

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Qualche tempo fa prendo coraggio e consiglio la canzone “Sparring Partner” di Paolo Conte ad un collega di trenta anni. La reazione non si fa attendere: “Ma che roba è ?”. Gli dico: “E’ poesia in musica” e lui: “Ma di cosa parla?”. Provo a spiegargli cosa credo di avere capito, ma non lo convinco. In effetti non mi sono mai soffermato troppo sul significato di questa canzone. Questa cosa mi fa riflettere: è veramente così importante che una canzone abbia un senso?

La bellezza spesso è indecifrabile. Di fronte ad un’opera d’arte avvertiamo le sensazioni che essa induce in noi, il suo effetto trasformativo, ma raramente riusciamo a svelarne i meccanismi. Le canzoni di Paolo Conte per me hanno questo fascino. La musica del piano si amalgama con un testo criptico dal significato sfuggente, ma nell’insieme evocativo. Le parole sono quasi un’estensione delle note, non sempre hanno un significato, ma contribuiscono a creare una suggestione. Un incantesimo, parole dal significato enigmatico, ma capaci di stimolare, in chi le ascolta, l’immaginazione.

Canzone “Sparring Partner” di Paolo Conte

Testo “Sparring partner” di Paolo Conte

È un macaco senza storia
Dice lei di lui

Che gli manca la memoria
In fondo ai guanti bui

Ma il suo sguardo è una veranda
Tempo al tempo e lo vedrai
Che si addentra nella giungla
No, non incontrarlo mai

Ho guardato in fondo al gioco
Tutto qui, ma sai

Sono un vecchio sparring partner
E non l’ho visto mai

Una calma più tigrata
Più segreta di così

Prendi il primo pullmann, via
Tutto il reso è già poesia

Avrà più di quarant’anni
E certi applausi ormai

Son dovuti per amore
Non incontrarlo mai

Stava lì nel suo sorriso
A guardar passare i tram
Vecchia pista da elefanti
Stesa sopra al macadàm

Il cavo “esplosivo”

Immagine creata con https://creator.nightcafe.studio/studio

Se mi metto a fare il conto degli anni trascorsi dalla mia prima esperienza lavorativa scopro che se ne sono andati quasi 30 anni: era una vita fa.
C’erano Windows 3.1 e Visual Basic 3.0, ma Internet non era ancora tra noi.
Per mettere in comunicazione un pc con i dispositivi elettronici si usavano i cavi seriali. Quando me ne serviva uno andavo nel reparto di elettronica prendevo: un cavo, due connettori a vaschetta il saldatore e me lo costruivo. Era una prassi diffusa, ormai ascrivibile tra le abilità da vecchia scuola.
L’alternativa era di “prendere in prestito” un cavo già pronto di qualcun altro.

Un giorno ero presso la postazione di un collega, sulla scrivania era appoggiato un cavo seriale grigio. Notai che per tutta la sua lunghezza c’erano una serie di piccoli caratteri blue, scritti a penna da mano umana con pazienza certosina. Incuriosito, cominciai a scorrere con lo sguardo il messaggio nascosto in quelle lettere minute che recitava in tono di ammonimento:
“QUESTO CAVO FUNZIONA SOLO SE USATO DAL PROPRIETARIO, IN TUTTI GLI ALTRI CASI ESPLODE”.
Trovai quell’idea geniale e divertente. Il proprietario ridendo mi disse: “Ti piace, aspetta.”. Prese il cavo in corrispondenza della scritta, lo tese e lo ruoto delicatamente di 180 gradi per tutta la sua lunghezza.
Sull’altro lato c’era un altro messaggio che proseguiva e concludeva il primo:
“E MO, FREGATEVE PURE QUESTO!”.

Mi piace pensare che quel sistema antifurto così atipico alla fine abbia funzionato.

Le tracce del tempo

A Corinaldo in fondo al “Viale Dietro le Monache” si trova una balconata che guarda ad ovest. Da lì si gode di un panorama suggestivo che spazia dalle colline circostanti fino al gruppo del Monte Catria, questo luogo è noto come il “Murello”.

Corinaldo – Balconata panoramica detta il “Murello”
Gruppo del Monte Catria lambito da nuvole passeggere

Durante le mie passeggiate mi fermo spesso a godere di questa vista. Quei monti li conosco bene, sono salito spesso sulla loro vetta. Loro, docili e pazienti, mi lasciano credere di averli conquistati, ma è un’illusione.
Quando mi trovo in questo luogo vivo una magia particolare, perché ho l’opportunità di osservare tracce di epoche remote e percepire lo scorrere del tempo.

La prima traccia del tempo è “Porta Nova” che si trova di fronte al “Murello, è la principale via d’accesso al centro storico e risale all’epoca medievale.

Corinaldo – Porta Nova

La seconda traccia, meno evidente, sono le montagne stesse. Le immagino lì ad osservarci da sempre, ma in realtà non è così, anche loro hanno un’età, si sono formate circa sedici milioni di anni fa.

La terza traccia, più nascosta, la vedo abbassando lo sguardo sulla seduta in pietra del “Murello”, in un punto spicca la forma geometrica a spirale di un fossile di ammonite. Questo è l’ennesimo segno di un tempo ancora più antico, circa 250 milioni di anni, quando questi luoghi erano un ambiente marino tropicale.

Fossile di ammonite sulla seduta in pietra del “Murello”

Non so di che tipo di pietra si tratti, ma mi piace pensare che quel blocco di pietra venga direttamente dalle montagne che mi stanno di fronte e che sia stato sottratto dall’uomo al suo ambiente d’origine quasi fosse un trofeo. Un atto di arroganza che ha, come unico effetto, quello di renderci consapevoli della nostra insignificanza di fronte ad eventi che precedono l’esistenza stessa della nostra specie.

Recentemente ho pubblicato un ebook ( La natura il tempo e le stelle: Raccolta di poesie in metrica haiku ) che contiene un verso sulla lotta epica tra acqua e pietra:

Pazienza

Tanto tempo fa
acqua sfidò pietra, lei
rise, ma perse.

A prima vista l’acqua potrebbe sembrarne la protagonista, ma non è così. La capacità di erodere la pietra da parte dell’acqua è infinitesimale, ma questo potere viene amplificato dal tempo. È il tempo che rende possibile ciò che all’inizio sembrava solo ridicolo. Il tempo è il motore del cambiamento. Alcuni avvenimenti sono tangibili ai nostri occhi, altri sono lenti ed impercettibili e travalicano la nostra esistenza.
Per esempio un raggio di sole primaverile che ci scalda e che sparisce d’improvviso, perché coperto da una nuvola passeggera.
Oppure un mare tropicale che si prosciuga lentamente fino diventare un paesaggio fatto di montagne, colline e valli.

Riflettere sul tempo mi porta inevitabilmente ad interrogarmi sulla vita e sul suo significato.
Prendete un foglio bianco ed una penna, disegnate un punto e poi tracciate una linea retta verso destra, fino alla fine del foglio. A livello geometrico questa è una rappresentazione schematica della nostra vita: una semiretta.
Un segno diritto tracciato su carta che parte da un punto e corre idealmente all’infinito. Già idealmente.
Forse la sfida suprema a cui ciascuno è chiamato, è rendere la propria vita più ricca e complessa di una semplice linea nera su un foglio bianco.

La durata del ciclo di vita di un essere umano rispetto a quella di una montagna è davvero poca cosa. La nostra esistenza sulla linea del tempo nella scala delle ere geologiche è solo un minuscolo punto. Il tempo che abbiamo a disposizione è prezioso, quando sarà terminato lasceremo dei segni o tutto si ridurrà solo ad un semplice segmento? Io mi ribello a questa idea, abbiamo una grande unica occasione e non dobbiamo sprecarla.

Anni fa, idealmente ho deciso di spezzare quella linea nera in tanti piccoli pezzettini, ho cominciato a lavorarli uno ad uno, scaldandoli piegandoli e torcendoli fino a farli diventare lettere dell’alfabeto. Li sto avvicinando tra loro, pazientemente giorno dopo giorno, fino a formare parole frasi e concetti scritti. Alla fine ho scoperto che scrivere, oltre a rendere la mia vita più interessante, incidentalmente contribuisce a creare una traccia del mio vissuto e ciò mi aiuta ed esorcizzare, almeno in parte, lo spettro del tempo che passa.

A questo punto auguro a ciascuno di trovare un modo tutto personale per arricchire la propria vita e lasciare un segno.
Se poi vi capitasse di visitare Corinaldo, non dimenticate di passare al “Murello”, chissà magari ci si incontra.

Riferimenti

FonteIndirizzo
Portale turistico città di Corinalohttps://www.corinaldoturismo.it/
Come nasce una montagna: la storia del Monte Catria e dell’Appennino Umbro – Marchigianohttps://www.ingv.it/newsletter-ingv-n-8-dicembre-2019-anno-xiii/come-nasce-una-montagna-la-storia-del-monte-catria-e-dell-appennino-umbro-marchigiano
Riferimenti

Carte in regola

Scartoffie

Qualche anno fa, mentre stavo lavorando con un mio collega anche lui software developer, aprii una parentesi e gli feci una delle mie solite tirate sul Clean Code.
Lui mi ascoltò pazientemente e poi se ne uscì con una frase che a distanza di anni ancora mi tormenta:
“Vedi Andrea, in definitiva, dopo dieci anni di lavoro, ho capito che l’importante è avere le carte in regola.”.

Io rimasi scioccato ed incredulo che qualcuno potesse arrivare a fare una tale affermazione. Dopo qualche esitazione gli dissi gentilmente:
“Non pensi invece che se ci impegnassimo a realizzare software funzionante, avremmo già risolto l’ottanta percento dei nostri problemi e potremmo fare a meno di tante inutili scartoffie? “

Questo episodio mi fece riflettere parecchio. Presi consapevolezza che quel contesto organizzativo era talmente tossico che nel tempo era riuscito ad azzerare completamente il buonsenso di quella persona. La mentalità dell’artigiano, quella che caratterizza i bravi software developer, era stata sostituita con quella di un freddo burocrate.

Il lavoro che facciamo è maledettamente difficile: forniamo soluzioni a problemi. Per fare ciò dobbiamo capire il problema scomporlo in parti più piccole e crearne un modello digitale. Il nostro è un lavoro intellettuale altamente creativo, in cui la passione gioca un ruolo importante.
Questa complessità molte persone non la percepiscono.
I primi a non capirla spesso siamo noi stessi developer, che di consegunza non ci sappiamo raccontare. Spostandosi a livelli gerarchici superiori la situazione non può certo migliorare tanto che, e a causa di un combinato disposto di ignoranza e malafede, siamo etichettati genericamente con sdegno come: “tecnici”. Agli albori dell’informatica qualcuno ha pensato che se il taylorismo aveva funzionato per la catena di montaggio, avrebbe funzionato anche per il software facendoci diventare gli operai del digitale, ma evidentemente non è così.

Finché l’AI non ci sostituirà del tutto, le aziende avranno bisogno di esseri umani che svolgano questo lavoro.
Il punto è che gli esseri umani sono organismi delicati, da trattare con cura, altrimenti si va incontro ad una serie di effetti collaterali: funzionano male, smettono di funzionare, si rompono o cambiano azienda.
Ho sperimentato sulla mia pelle che, per produrre software di qualità decente, è necessario un buon equilibrio psicofisico. L’azienda perciò avrebbe tutto l’interesse a creare è mantenere un clima di lavoro non tossico. Il problema è che per creare e mantenere un ambiente di lavoro sereno e collaborativo serve molto impegno. Bisogna operare avendo come obiettivo la sostenibilità del lavoro. Invece l’unico obiettivo sui cui tutti sono allineati è il budget trimestrale. Questa impostazione spesso induce a scelte miopi e impedisce di mantenere il focus sul core business: il software che è il risultato della conoscenza di dominio e delle persone.
In nome del budget si fanno guerre sante in cui il fine giustifica i mezzi senza considerare i danni collaterali.
Così prendonono vita i famosi progetti “bagno di sangue”, che richiedono eroici sacrifici e che alla fine contano un gran numero di “morti” e “feriti” tra i soldati.

Un team di software developer è un insieme di persone creative, come tale costituisce un delicato ecosistema di rapporti interpersonali, il cui buon funzionamento è garantito più dalla psicologia della comunicazione che dalle procedure. Se i componenti di un team sono mediamente motivati e riescono a lavorare in un clima sereno, non è necessario fare micro management, probabilmente il team si auto organizza.

Quel mio collega poi ebbe l’opportunità di cambiare ruolo. L’ho incontrato recentemente e l’ho trovato in ottima forma, sereno e ottimista.
Il sistema evidentemente non lo ha riprogrammato completamente, ne sono felice. Gli ho accennato quell’epico scambio di battute, ma lui neanche se lo ricordava!
A questo punto, non mi resta che augurare buone scartoffie a tutti.




Tunnel 13

“Tunnel 13” è un brano incluso nel recente album “One Deep River” di Mark Knopfler. Fin dal suo primo ascolto sono rimasto colpito dalla storia che racconta. Mi ha fatto riflettere sul fatto che una canzone è una forma espressiva simile al racconto breve e questo pezzo mi sembra un ottimo esempio di narrazione per immagini con un finale evocativo.

Mark Knopfler – Tunnel 13 (One Deep River)

Il testo originale lo potete trovare qui.
A seguire una mio tentativo di traduzione:

Nelle Montagne Siskiyou, serpeggia la vecchia ferrovia
Attraversa gli aceri dorati ed i verdi pini
scala la Southern (Pacific) fino al Tunnel 13
dove tre banditi attendono con cattive intenzioni

I fratelli D’Autremont avevano scelto la loro strada
Scelto di vivere secondo il codice criminale
Qualcuno disse che il vagone postale era carico d’oro
I fratelli lo avevano sentito o qualcuno glielo aveva suggerito

Non volevano testimoni, questo era sicuro
I fratelli erano pronti a compiere un atto barbaro
L’oro non c’era, trovarono solo tristezza e lacrime
e la legge a perseguitarli anno dopo anno

Tre banditi, con i cuori pieni di risentimento ed odio
uccisero il commesso postale Elvyn Daugherty, l’ingegnere Sydney Bates
con fucile e pistole, erano in preda al panico quando
uccisero l’addetto ai freni Coyle Johnson ed il fuochista Marvin Seng

Rubare e saccheggiare è vecchio quanto il mondo
continuano ad assaltare treni merci con piedi di porco e trapani
Cento anni dopo nel centro di Los Angeles
Rubano ancora alla Union Pacific quasi ogni giorno

Quattro bravi uomini giacciono sepolti tra cornioli e pini
Lasciando vedove e figli e il dolore per la perdita
Tunnel 13 è il posto nella canzone
da cui proviene il magnifico legno della mia chitarra

Traduzione del testo di “Tunnel 13” di Mark Knopfler

Interpretazione

Il fatto raccontato è realmente accaduto e risale al 1923.
Mark ci porta tra le montagne dell’Oregon del sud e ci narra una rapina finita in mattanza con uno stile giornalistico.

Il tema di fondo è quello della malvagità umana.
Una piaga antica che si fa strada anche in luoghi impervi e incontaminati. L’uomo cerca la ricchezza dell’oro a tutti i costi da sempre e per sempre. Accecato da questa febbre è incapace di cogliere alla bellezza che lo circonda: gli aceri che in autunno si colorano d’oro.
Corre voce che il treno sia carico d’oro, i tre fratelli lo assaltano, ma l’informazione si rivela infondata. I banditi irati e decisi a non lasciarsi testimoni alle spalle, uccidono tutti gli operatori del treno. Nonostante tutto saranno catturati e pagheranno per il loro crimine insensato.

La malvagità è connaturata nell’uomo e dopo tanti anni fatti del genere si ripetono ancora ogni giorno, vengono prese di mira le banche al centro della città perché la ricchezza adesso è lì.
Il coro con cui si apre il brano sono le voci invocanti delle vittime e dei loro familiari che urlano il proprio dolore.
Solo gli alberi sono stati testimoni muti di quella inutile follia omicida e ne hanno conservato memoria. Da quei posti viene il pregiato legno di corniolo che ha dato vita alla chitarra di Mark. Ora quella vicenda, che gli alberi si sono tramandati, può essere cantata, per dare finalmente voce alle vittime.

La macchina creativa

Image by Gerd Altmann from Pixabay

La disponibilità dell’AI generativa ha reso chiunque capace di creare un contenuto testuale di buona qualità. Chi ama scrivere evita queste scorciatoie e preferisce confrontarsi con l’ispirazione e la creatività a “mani nude”. La scrittura è una sfida con sé stessi che merita di essere affrontata in un leale corpo a corpo.

Un modello di AI generativa è addestrato su una moltitudine di opere scritte di origine umana. La sua capacità generativa si basa sulla possibilità di combinare su base statistica contenuti preesistenti. Questo meccanismo, a prima vista, rende la capacità generativa AI diversa dall’immaginazione umana, ma ne siamo sicuri?
Recentemente ho scritto e pubblicato un racconto “Unico testimone la Luna”, esso è indubitabilmente farina del mio sacco. L’ho immaginato e scritto io, quindi è un contenuto senza dubbio originale.
Ma quale opera scritta possiamo considerare veramente originale?

Con il termine originale intendiamo prodotto da qualcuno da zero, non copiato, scaturito dall’immaginazione. Ma se ci fermiamo a riflettere, ci accorgiamo che, ciò che consideriamo esclusivo frutto della nostra mente, è solo il prodotto di una lunga serie di contaminazione, suggestioni ed esperienze vissute lungo l’arco di una vita. Alla fine, ciò che scrivo non è necessariamente nuovo od inedito, ma semplicemente la combinazione conscia ed inconscia di qualcosa che ho letto, visto ed esperito fino a quel momento.

Dal punto di vista puramente generativo, forse non siamo molto diversi dall’AI. Vivendo, interagiamo con il resto del mondo ed alimentiamo un modello (mente e memoria) che influenza il nostro comportamento e la nostra creatività. Diversamente dall’AI il nostro modello è alimentato da una serie di informazioni sensoriali captate attraverso il corpo. Ciò che creiamo è sempre la sommatoria degli eventi di cui siamo testimoni o attori. L’elaborazione degli eventi sensoriali che ci hanno raggiunto, coinvolto e che alla fine ci hanno trasformato.

Un creativo in effetti può essere considerato una “macchina” che grazie ad una particolare sensibilità, elabora il proprio vissuto e lo reinterpreta, trasformandolo in un’opera. L’AI non ha una fisicità, non vive il mondo concreto, non raccoglie stimoli sensoriali e non sperimenta le emozioni. È un alieno che conosce l’umanità attraverso ciò che essa ha prodotto a livello letterario. Può dire di conoscerla molto bene, può persino mimarne il comportamento, impersonando qualcuno, ma non è in grado di replicarne l’essenza. Alla fine quel corpo che ci rende esseri finiti e limitati, forse rappresenta proprio il nostro vantaggio competitivo.

Leggendo un libro è spontaneo domandarsi quanto ci sia di autobiografico dell’autore. Io sono dell’idea che in un’opera c’è inevitabilmente sempre tutta la vita intera dell’autore. Non in senso stretto di accadimenti, ma nel significato che l’opera racchiude in sé. Per questo trovo molto più interessante indagare sui motivi che hanno messo in moto quella macchina e che, attraverso un processo di trasformazione, ha dato vita a quell’opera. L’AI, non potendo provare emozioni, non è in grado di mettere in moto questo processo. Il significato forse è la chiave di tutto. L’AI può generare poesia, ma non è in grado di coglierne il significato e quindi non ne subisce l’effetto. Può decifrare la metrica e farne la parafrasi, ma non è in grado di emozionarsi per la sua bellezza.

Onde di girasoli nella campagna di Corinaldo (AN).
In lontananza il massiccio del Monte Acuto e Monte Catria

Forse fino a quando l’AI sarà incapace di provare stupore di fronte ad un panorama, godremo del vantaggio di essere umani.

L’arte che è in ciascuno di noi

Mark Knopfler – Privateering Tour – Father & son / Hill Farmer’s blues

Come iniziare bene l’anno? Per esempio ascoltando buona musica e fermandosi a riflettere sul divino che si nasconde in ciascuno di noi.

Come può un uomo di mezza età dall’aspetto anonimo da impiegato del catasto farvi passare i brividi lungo la schiena?
In fondo la musica è solo aria che vibra. Un’infinita combinazione di sette semplici note.

Credo si tratti di arte ed è un grande potere: la magia di indurre emozioni a distanza su altre persone.

Non smettete mai di cercare questa magia nascosta in voi.
Se la trovate abbiatene cura e fatela crescere. Non abbiate paura di lasciare che emerga. Qualcuno vi prenderà per folle, ma non soffocate il vostro demone.
Cercate altre persone con lo stesso dono capaci di vibrare alla vostra stessa frequenza, con la vostra stessa sensibilità e farete cose grandi insieme.

Vi auguro di trovare la vostra “band”. Polistrumentisti che sappiano suonare strumenti inusuali: la cornamusa il violino ed il flauto così sarete capaci insieme di produrre melodie angeliche. Sarà facile suonare insieme la danza della vita. Basterà un cenno del capo per capirsi. Suonerete insieme con il sorriso: divertendovi. E saprete navigare insieme il mare: indovinando l’armonia delle onde.

Agli scrittori auguro di riuscire con la propria penna, di generare anche solo la metà della magia che è in grado emanare Mark Knopfler con la sua chitarra e la sua voce.

Non smettete mai di cercare la bellezza e l’armonia e forse riuscirete a vivere questo mondo con una certa leggiadria.

Quasi magia

Molti anni fa, credo fosse il 1998, fui testimone di un surreale scambio di battute tra colleghi. I due erano entrambi software engineer con esperienza, ma diversissimi tra loro. In quel periodo stavano collaborando ad un progetto problematico e formavano una strana coppia. S. era il leader: giovane, geniale e irriverente. C. un ingegnere preciso, metodico, ma introverso. Io ero alle prime armi e le dinamiche di questo team atipico mi affascinavano molto.
Quel giorno mi trovavo a parlare con S. alla sua scrivania quando C., nella postazione a fianco, in un inaspettato slancio di gentilezza, si girò e chiese a S.:
“Senti, devo scrivere quella funzione in C++ che poi dovrai invocare, che parametri preferisci in ingresso ?”
S. si tormentò il pizzetto per qualche istante con fare pensoso e poi rispose serio e risoluto: “Guarda, facciamo una cosa semplice…” Poi fece una pausa studiata ad arte e proseguì: “Definisci una funzione che accetta in ingresso solo una stringa. Così io scrivo in linguaggio naturale quello che la funzione deve fare e lei lo fa…”.
Rimanemmo in silenzio per alcuni secondi, guardando C. che cercava di assorbire il colpo. L’espressione interrogativa del suo viso lasciò il posto prima all’incredulità e poi alla delusione. Alla fine disse laconicamente: “Ho capito…” e tornò a rivolgersi al suo schermo. Noi naturalmente scoppiammo a ridere.

Finora questo era solo uno spassoso aneddoto a testimonianza della brillantezza di S. .
Qualcosa però è cambiato perché a distanza di 25 anni la rivoluzione dell’AI Generativa ha inaspettatamente dato corpo a quella battuta nonsense.
Così oggi, ogni volta che penso a quella frase, un brivido freddo mi attraversa la schiena. Risento S. pronunciare quelle parole: “Io scrivo in linguaggio naturale quello che deve fare e lei lo fai…” e lei lo fa. È quasi magia.