Quasi magia

Molti anni fa, credo fosse il 1998, fui testimone di un surreale scambio di battute tra colleghi. I due erano entrambi software engineer con esperienza, ma diversissimi tra loro. In quel periodo stavano collaborando ad un progetto problematico e formavano una strana coppia. S. era il leader: giovane, geniale e irriverente. C. un ingegnere preciso, metodico, ma introverso. Io ero alle prime armi e le dinamiche di questo team atipico mi affascinavano molto.
Quel giorno mi trovavo a parlare con S. alla sua scrivania quando C., nella postazione a fianco, in un inaspettato slancio di gentilezza, si girò e chiese a S.:
“Senti, devo scrivere quella funzione in C++ che poi dovrai invocare, che parametri preferisci in ingresso ?”
S. si tormentò il pizzetto per qualche istante con fare pensoso e poi rispose serio e risoluto: “Guarda, facciamo una cosa semplice…” Poi fece una pausa studiata ad arte e proseguì: “Definisci una funzione che accetta in ingresso solo una stringa. Così io scrivo in linguaggio naturale quello che la funzione deve fare e lei lo fa…”.
Rimanemmo in silenzio per alcuni secondi, guardando C. che cercava di assorbire il colpo. L’espressione interrogativa del suo viso lasciò il posto prima all’incredulità e poi alla delusione. Alla fine disse laconicamente: “Ho capito…” e tornò a rivolgersi al suo schermo. Noi naturalmente scoppiammo a ridere.

Finora questo era solo uno spassoso aneddoto a testimonianza della brillantezza di S. .
Qualcosa però è cambiato perché a distanza di 25 anni la rivoluzione dell’AI Generativa ha inaspettatamente dato corpo a quella battuta nonsense.
Così oggi, ogni volta che penso a quella frase, un brivido freddo mi attraversa la schiena. Risento S. pronunciare quelle parole: “Io scrivo in linguaggio naturale quello che deve fare e lei lo fai…” e lei lo fa. È quasi magia.

Best practice


Molti anni fa, agli albori della mia carriera professionale, partecipai ad un corso di team building. Svolgemmo numerose esercitazioni, ma ce ne fu una che più delle altre lasciò in me un segno indelebile.
L’esercizio prevedeva di risolvere un puzzle piuttosto complicato in un tempo limitato attenendosi rigorosamente alle regole che erano state scritte alla lavagna.
A circa metà del tempo il formatore, senza dire nulla, attaccò alla lavagna un disegno con la soluzione. Noi incuranti proseguimmo il nostro lavoro tentando di risolvere il rompicapo.
Il tempo a nostra disposizione terminò e non trovammo la soluzione.

Il formatore chiese chi avesse notato la presenza della soluzione e chi l’avesse utilizzata per risolvere l’esercizio. Io in effetti l’avevo notata, ma non l’avevo presa in considerazione avevo pensato tra me: “Troppo facile, copiare non vale”.
Il formatore ci fece notare però che tra le regole non era inclusa quella di non copiare. In effetti l’obiettivo dell’esercizio era dimostrare che il mindset influenza il comportamento e tende a ridurre lo spazio di ricerca della soluzione. Inoltre essere troppo focalizzati sul problema a volte impedisce di cogliere eventuali preziosi aiuti esterni: pensiero laterale. Nel caso specifico ci svelò che siamo cresciuti con l’idea che copiare è sbagliato e con il senso di colpa che ne deriva.

In quel momento presi consapevolezza di quanto la mia visione del mondo fosse influenza dal retroterra culturale d’origine.
Il messaggio che passò è che il mondo del business è spietato, conta il risultato e non come ci si arriva. Io sarò romantico, ma a questa idea di un mondo cinico e crudele non mi sono mai piegato.
Però è innegabile che copiare sia uno sport molto diffuso. Forse è per questo tendiamo a parafrasare. Per esempio “Prendere spunto” suona già meno peccaminoso. Domani quando qualcuno vi apostroferà sdegnato:
“Ehi, ma tu hai copiato!” potrete sempre rispondere sorridenti e sornioni:
“No, certo che no. Ho solo applicato una best practice”.

AI generativa

Foto di Gerd Altmann da Pixabay

La rivoluzione digitale ha semplificato molte attività aumentando i “poteri” degli esseri umani e inducendo evidenti effetti collaterali, ne parlavo tempo fa qui. L’uomo, grazie alla tecnologia digitale ha migliorato l’accesso alle informazioni e la capacità di memorizzazione, ma finora la creatività era una dote esclusiva e personale. Un dono raro, dalle origini misteriose e dai meccanismi sfuggenti.
Con l’AI generativa è stato superato anche questo limite. Usando un’AI (es. ChatGpt) e fornendo le giuste indicazioni, chiunque può generare un racconto, una canzone, una poesia. Questo cambia significativamente le cose e fa emergere una serie di domande inquietanti.

Come potremo sapere se una creazione è umana o artificiale ? Forse servirà la tracciabilità delle opere. Se non possiamo attribuire la paternità delle opere i concorsi e le prove d’esame dovranno essere dal vivo e preferibilmente di tipo orale. Un curioso paradosso, abbiamo appena compreso l’utilità della remotizzazione e dobbiamo già tornare alla presenza fisica ? Ha senso parlare di diritti d’autore per un’opera generata ?

Avere a disposizione questa potenza creativa ci renderà tutti poeti e scrittori o invece appiattirà l’offerta?
I creativi saranno spinti a fare meglio, si ritireranno o troveranno il modo di cooperare con le AI ?
Se un’AI venisse addestrata su tutto lo scibile umano potrebbe essere considerata rappresentativa dell’umanità nel suo insieme ?

Quando l’AI diventerà tascabile e sarà addestrata in modo continuo con tutti i nostri dati personali, essa diventerà un nostro doppio digitale che ci migliorerà a tutti i livelli. Gli smart glasses e l’AI ci renderanno umani potenziati. Più sarà potente il modello, maggiore saranno le performance. Se prima ciascuno poteva trovare nella propria creatività un potente fattore competitivo innato, in futuro il denaro potrà sopperire a questa mancanza.
L’arte umana perderà valore per inflazione di opere generate e co-generate o lo acquisterà diventando ancora più rara?

Quando saremo defunti il nostro io digitale sopravvivrà ? I nostri amici potranno chattare ancora con noi in puro “spirito” digitale ? Il doppio, privato dell’esperienza della vita, rimarrà fermo al suo tempo diventando noioso? Forse gli forniremo falsi ricordi di nuove esperienze per mantenerlo “vivo” ? Se alla morte fisica non corrisponderà una morte digitale, il nostro io digitale potrebbe vivere in eterno, ammesso che ci sia energia per sostentarlo. Sarebbe una sorta di vita eterna digitale.

L’AI generativa è sostenuta da un modello di comprensione del linguaggio addestrato su una grande mole di dati. Secondo lo storico Yuval Noah Harari (“Sapiens. Da animali a dèi”) il linguaggio è stato il fattore chiave di successo della specie umana. Ora questa è un’abilità digitale e come tale può essere sviluppata, condivisa, clonata: una vera rivoluzione. L’AI e’ molto vicina a superare il test di Turing. Ciò avvicinerà le macchine agli esseri umani e i confini inizieranno a sfumare. Presto sarà possibile ciò che Philiph K. Dick teorizzava nei suoi romanzi il Dottor Sorriso: un servizio digitale completamente automatico di psicanalisi. Per ora l’AI non ha consapevolezza di se e non ha un corpo fisico, ma quando avremo superato anche queste barriere, ci servirà il test Voight-Kampff del film “Blade Runner” per distinguere un essere umano da un androide.
Comunque se va male, male, male sappiamo già che vincerà SkyNet .

Tessere la tela della fiducia

“Le ali della libertà” 1994 scritto e diretto da Frank Darabont tratto dal racconto “The Shawshank Redemption” di Stephen King. Disponibile su Amazon Prime

Questa è una sequenza del film “Le ali della libertà”.
Il film racconta la storia di un uomo ingiustamente condannato Andy Dufresne (Tim Robbins) che deve scontare una lunga pena detentiva in carcere.
Il film è particolarmente toccante e questa è una delle scene che amo.

In questa sequenza Andy, esce dal ruolo di carcerato e lo fa in modo temerario. Sfotte volutamente il capo delle guardie, sfidando platealmente il suo potere. A prima vista si tratta di un suicidio, ma non è così. Possiamo considerarla piuttosto una tecnica di marketing estremo. Uno scarafaggio in mezzo a tanti altri che deve guadagnare l’attenzione del capo sorvegliante.
Sfida il potere e la forza bruta facendo leva sull’ambizione del secondino di sottrarsi a quel potere da cui a sua volta è soggiogato: il Fisco.
Già perché, fuori da lì, i carcerieri sono oppressi da quella legge che nel carcere fanno rispettare. Andy però si dice in grado di navigare tra le pieghe della burocrazia e conquista così la fiducia del capo delle guardie. Impresa difficile visto che deve farlo senza delegittimarlo di fronte ai tutti i presenti. Non solo, azzera il contro valore di questa bizzarra transazione, limitandosi a chiedere in cambio delle birre per i suoi “colleghi”.
Ciò naturalmente rappresenta solo una prima piccola vittoria tattica rispetto alla strategia che ha in mente di dispiegare. Questa è soprattutto una grande vittoria simbolica.

Quell’uomo esile ed indifeso ha fatto un incantesimo. Sotto gli occhi di tutti ha fermato il tempo e sovvertito i ruoli anche se solo per un attimo. Da scarafaggio ha riacquistato una sua dignità fino a diventare addirittura un consulente del suo carceriere: impensabile. Il denaro qui si riconferma ancora una volta la forza oscura che può tutto ed è in grado di annullare: Gerarchia, Legge, Stato.
I suoi compagni ora sono colleghi, lavoratori con una dignità.
Quel tetto anonimo, per un attimo, diventa per Andy e i suoi compagni il tetto del mondo.

Questa sequenza mi ha indotto ad una serie di riflessioni sul concetto di fiducia nell’ambito di team di lavoro.
Come si instaura un rapporto di fiducia in un team ?
Direi nel tempo con pazienza. Dimostrando l’un l’altro coerenza nelle parole e nelle azioni. Azioni che debbono avere come finalità un obiettivo comune e non personale.
Qual é il primo passo concreto per dimostrare fiducia ? Un dono disinteressato che dimostri una generosità sincera. Un gesto di solidarietà a beneficio del team. Andy fa questo, si lancia in una sfida folle, corre un rischio personale. Vince e quando riscuote il premio lo dedica agli altri: lui la birra neanche la beve. Nell’ambiente carcerario dove tutto è ridotto a merce di scambio e non c’è posto per i sentimenti umani, questo atto di solidarietà rende Andy un alieno, ma anche una persona di cui potersi fidare.

Costruire un rapporto di fiducia tra colleghi è un lavoro lungo e faticoso. Bisogna essere sinceri, trasparenti e curare la comunicazione. Avere pazienza, chiedere scusa e ringraziare, usare gentilezza nei rapporti. Tutto ciò alla lunga rende l’ambiente sereno e collaborativo. Se c’è un problema, non si cerca il colpevole, ma si coopera per risolverlo, poi si cerca la causa e si adotta un sistema per evitare che il problema si presenti nuovamente.

Lavorare in un team basato sulla fiducia fa sentire le persone al sicuro e crea quindi le condizioni migliori per lavorare sereni. Sentirsi psicologicamente sicuri è la condizione necessaria per affrontare nuove sfide, perché insieme ci si sente più forti e si ha il coraggio di affrontare l’ignoto. La fiducia è come la seta del ragno, un materiale delicato che se tessuta con maestria, può formare una tela robusta. La tela della fiducia è preziosa perché rappresenta una rete di sicurezza che protegge da eventuali errori o cadute.
Credo che la fiducia sia un elemento imprescindibile per il buon funzionamento di un team, per questo è importante che ciascuno si impegni a tessere questa rete dal filamento sottile ma tenace.

Il “tunnel” delle patatine

“Dai forza, mangiane ancora uno…”
“Mamma, te l’ho detto, non mi va.”
“Devi mangiare altrimenti non cresci. Quante volte te lo devo dire Galactus.
Dai un ultimo pianeta poi basta…”

Quando una mia amica invia sulla chat una foto del genere significa che il livello di stress sul lavoro è alto.

Patatine come soluzione allo stress ?

Pensare di alleviare questo disagio con le patatine credo sia un’illusione.

Certo avventarsi su quelle croccanti sfoglie salate e lasciarsi cullare dalle basse frequenze dello sgranocchiare è liberatorio, ma non porta avanti il vostro lavoro, anzi probabilmente lo rallenta.

E’ come se le patatine rappresentassero i problemi che dovete affrontare: mangiarle vi dà l’illusione di affrontarli e risolverli.
Uno psicologo direbbe che siamo in presenza di un transfer. Vi sentite oppressi dal lavoro e scaricate la frustrazione distruggendo quelle povere patatine indifese, per dimostrare che avete il predominio su qualcosa.
A dirla tutta il potere magico di far sparire un pacchetto di patatine in poco tempo è molto diffuso, lo pratico anche io ogni tanto.
Galactus invece quando è stressato mastica piccoli asteroidi.

D’altra parte un segreto che quelli del marketing degli snack hanno tenuto ben custodito fino a qualche tempo è questo: qualunque cibo salato che faccia “crunch” vende un casino.

Con queste patatine come vogliamo fare ? L’ideale sarebbe andare alla radice del problema.
Usare la filosofia Toyota dei cinque perché, capire cosa sia fonte di stress e trovare una soluzione.
A volte la causa potrebbe risiedere nel ruolo ricoperto oppure peggio nell’ambiente tossico, ma in questo caso la soluzione potrebbe richiedere scelte drastiche e complesse.
Chiaro che risolvendo un problema del genere rischieremmo il tracollo del mercato degli snack e questo non ce lo possiamo permettere.

In alternativa vi consiglio di provare almeno ad invertire la logica.
Datevi dei piccoli obiettivi, concentratevi su di essi ed ogni volta che ne raggiungete uno fermatevi e premiatevi con qualcosa che vi gratifica
(anche il mercato degli orsetti di gomma va forte).
Probabilmente con questo metodo si ingrassa lo stesso, ma almeno si rimane produttivi.
Inoltre spuntando gli obiettivi raggiunti nell’arco della giornata, potreste rendervi conto che lo stress è causato dalla quantità esagerata di lavoro che dovete svolgere e non dalla vostra scarsa produttività.
Forse questo vi farà sentire meno in colpa e magari vi porterà a riflettere su voi e sul vostro lavoro.


I “bombardieri” normativi

Camminavo per la città con le mani in tasca perso nei miei pensieri.
Poi avvertì un sordo rombo in lontananza.
Alzai gli occhi al cielo e vidi sagome nere minacciose volare lente.
Seguì con lo sguardo la flotta dei neri bombardieri passare indisturbata sopra la città; nessuna contraerea.
Tutti sapevano che sarebbero arrivati, i civili erano stati evacuati per tempo.
Gli aerei oltrepassarono i grattacieli e li persi di vista.
Chiusi gli occhi e nella mente immaginai le bombe che venivano sganciate.
Non sapevo esattamente dove sarebbero cadute e quali danni avrebbero fatto.
Sapevo solo, che una volta terminato l’attacco, io e la mia squadra avremmo dovuto ripristinare ciò che era stato danneggiato per rendere la città nuovamente funzionate e vivibile.
Almeno fino al prossimo bombardamento.

Adeguamento normativo

Il software è un manufatto realizzato per risolvere problemi di business.
In un mercato caratterizzato da cambiamenti frequenti ed improvvisi il software è soggetto a continui adeguamenti.
L’adeguamento può scaturire da esigenze funzionali espresse dal cliente oppure da variazioni normative decise dal legislatore.
Nel primo caso il requisito può essere oggetto di un negoziato nel secondo caso no.
In Italia la normativa è una fonte inesauribile di adeguamenti, spesso complessi e complicati.
Il problema è che gli adeguamenti normativi sono requisiti con complessità incomprimibile e non negoziabile, pertanto rappresentano una seria minaccia rispetto alla quale andrebbero adottare opportune contromisure.

La triade

Il software per sua natura è plastico, ma qualunque adeguamento ha un costo e può avere degli effetti collaterali sul suo funzionamento.
Più l’adeguamento è ampio e profondo maggiore sarà l’impatto e maggiore sarà il costo.
Più elementi del software debbono essere modificati, più complicato e lungo sarà l’intervento di adeguamento.
Più il software è progettato male e scritto in modo incomprensibile, maggiori saranno i neuroni bruciati da chi deve modificarlo. Un momento, questo aspetto non e’ considerato tra i costi aziendali, quindi non frega a nessuno (sigh!).
Il lato oscuro dell’adeguamento normativo e’ che esprime anche una scadenza, pertanto definisce a priori il tempo che si ha disposizione per lo sviluppo per i test e per la delivery sui clienti.
Perciò nel caso di un adeguamento normativo, se prendiamo la triade: Time, Scope e Cost, abbiamo i primi due assi fissi e possiamo modulare solo il Cost: forse.
Si ma, di che effort stiamo parlando ? Facciamo una stima dell’impatto.

Stallo


Non è infrequente che la stima per l’adeguamento ecceda il tempo utile a disposizione e qui casca l’asino.
In questi casi la via aurea del manager illuminato (male) è spingere sul budget: cioè aumentare le persone che lavoreranno al progetto.
Il problema è che questa strada seppur costosa non sempre è praticabile: dipende da come è stato progettato il software.
Se il software non è modulare, lavorarci in parallelo potrebbe risultare talmente caotico da indurre l’effetto contrario.
E’ come pensare di aumentare la produttività di una minuscola cucina mettendoci a lavorare in contemporanea tre cuochi della stazza di Giorgione: una ben triste un’utopia.
Quando il parallelismo non è attuabile siamo in presenza di uno stallo in cui l’apporto del management è pari a zero.
In questi casi la realtà inconfessabile è che l’adeguamento nei tempi previsti semplicemente: non è umanamente possibile.
Nessun manager ama udire queste parole e Caterina lo sa bene:

La verità ti fa male, lo so

Caterina Caselli “Nessuno mi può giudicare”


Un eroe al tavolo 5

Come si esce dallo stallo ? Serve un eroe.
“Accendiamo il Bat-segnale.” disse il Capitano Gordon.
Si cerca qualcuno sprezzante del pericolo, con alto senso del dovere pronto ad immolarsi per il bene dell’azienda.
Qualcuno pronto al sacrificio che, esercitando il super-poter dell’extra-effort (non retribuito) curvi abilmente lo spazio-tempo e lavorando 12 ore al giorno prenda in mano quel groviglio infernale di codice e ne dipani la matassa.
E il miracolo si compie ogni volta, come la liquefazione del sangue di San Gennaro.
Ma possiamo veramente definirlo un miracolo ?
Non è piuttosto una perversa roulette russa ?
Magia nera alimentata dal sacrificio umano ?

E se ha funzionato una volta, forse e’ ripetibile, quindi perche’ prendere provvedimenti?

Manager certificati, ma privi di buonsenso, empatia e competenza non funzionano.
Sono individui che, non avendo adottato in tempo utile opportune contromisure, trovandosi spalle al muro, attribuiscono agli Dei le colpe della propria inettitudine per poi invocarne subito dopo l’intercessione e l’invio dell’eroe salvatore…
Non abbiamo veramente bisogno di figure del genere in azienda. Saremmo in grado di fare gli stessi danni anche da soli. Per fare meglio servono manager competenti e proattivi.

Quel debito ? Non e mio!

Queste situazioni di stallo non possono essere gestite in nessun modo ortodosso, ma possono essere evitate facendo prevenzione.
In un’azienda IT il debito tecnico è un problema di tutti, ma sembra non interessi a nessuno, tranne gli sviluppatori che ci combattono quotidianamente.
Il debito tecnico deve essere mantenuto basso perché è un costo aziendale e prima o poi i debiti vanno saldati.
Se il software è soggetto ad adeguamento normativo frequente, il debito tecnico ne amplifica gli effetti negativi, pertanto non può essere sottovalutato.
In uno scenario del genere convivere con codice legacy senza investire per reingegnerizzarlo è una mancanza grave che denota miopia e scarso rispetto per le persone.

Predisponiamo la contraerea ed adottiamo dei criteri costruttivi diversi per ridurre e mitigare gli effetti devastanti dei bombardieri normativi e magari così non avremo più bisogno degli eroi.

Metamorfosi

Ho atteso parecchio per scrivere questo post, perché volevo poter guardare agli eventi narrati con il giusto distacco.
Nella vita di ciascuno ci sono eventi che alterano il corso delle cose: una scelta, qualcosa che abbiamo detto o fatto.
Diamo però molta enfasi all’evento in sé, spesso senza fermarci a riflettere sul percorso che ci ha condotti fino a lì.
In questo caso proverò a ripercorrere il filo degli eventi.

Quasi per scherzo

Era una domenica di dicembre 2018 quando decisi di presentare la mia proposta di talk all’evento Oracle Code di Roma per il marzo successivo.
Da qualche anno frequentavo alcune community di sviluppatori software, seguivo talk online e avevo partecipato di persona ad alcuni eventi di settore.
L’idea di fare un talk mi attirava molto, ma dovevo trovare un argomento ed un contesto adatto.
Avevo alle spalle una solida esperienza da formatore, ma non avevo alcuna esperienza di talk.
In quel periodo frequentavo l’Italian Oracle User Group (ITOUG) e quando venne annunciato un evento Oracle a Roma l’allora presidente Francesco Tisiot mi incitò a partecipare.
Sembrava l’occasione giusta, ma dovevo trovare un tema da discutere.

A quei tempi, insieme ai miei colleghi, lavoravo ad un software con molti anni sulle spalle realizzato con tecnologie Oracle.
La sua età non giustificava investimenti per innovazione, ma nonostante ciò noi avevamo il compito di farlo funzionare al meglio e adeguarlo alle nuove esigenze di volta in volta sempre più sfidanti.
Così avevamo fatto di necessità virtù e, con i pochi mezzi a nostra disposizione, avevamo realizzato un framework che alla fine ci aveva consentito di risolvere brillantemente tutta una classe di problemi.
La soluzione che avevamo progettato, realizzato ed adottato meritava di essere raccontata, perché a mio modo di vedere rappresentava un bel esempio d’innovazione frugale (Jugaad).

Quel mattino di dicembre decisi quindi di proporre il mio talk .
In fase di registrazione veniva richiesto il link ad un precedente talk o una breve video presentazione.
Non avendo esperienze pregresse, optai per la seconda opzione e registrai un breve video.
Ero piuttosto imbarazzato, ma superai l’indecisione, completai la registrazione e cercai di non pensarci più.

Si fa sul serio

Qualche tempo dopo arrivò l’accettazione del talk.
Quella che era solo un’ambizione aveva trovato la forza di concretizzarsi in una sfida con me stesso. A quel punto avevo preso un impegno e avrei cercato di portarlo avanti nel migliore dei modi.
Cominciai così a scrivere una bozza della presentazione per il talk.
Coinvolsi i miei colleghi ed usai i loro preziosi feedback per migliorarla.
Mi documentai sulle migliori pratiche per condurre dei talk.
Trovai numerosi spunti interessanti, ma soprattutto mi convinsi che serviva un elemento narrativo per rendere fluida e piacevole la presentazione.
Ci pensai un po e alla fine trovai che il concetto di metamorfosi era adatto.
Quella fu la svolta. Aggiunsi immagini sufficientemente evocative e la presentazione prese corpo.
Feci due e tre prove del talk, video registrandomi per vedere se rientravo nei 45 minuti a disposizione: dovetti ridurre ancora le slide ma funzionava! (Link alla presentazione)
Prima del talk si concretizzò l’opportunità di cambiare azienda.
Soppesai tutti i pro e contro, ma era da tempo che meditavo di cambiare strada: decisi che era ora.
La consapevolezza di questa scelta, mi consentì di affrontare il talk sereno, cosciente che a seguire mi attendevano cambiamenti ben più ardui.

Si va in scena

Organizzai la trasferta a Roma con l’aiuto del mio caro amico Marco.
Andai a Roma e fu un piacere enorme ritrovarsi dopo tanti anni.
L’indomani sarebbe venuto anche lui a seguire l’evento.

Giovedì 4 aprile Eur Salone delle Fontane.


Ero piuttosto emozionato.
Ironia della sorte di fronte si stagliava in tutta la sua imponenza la nuova sede dell’azienda per cui lavoravo.
Fatto il check-in ci presentammo alla postazione ITOUG, dove ci accolse
Mario Fusciardi che con la sua simpatia e la sua gentilezza ci fece sentire subito a casa.

Pass
Desk ITOUG con Mario Fusciardi


Andai nella sala del talk a fare un check del collegamento al proiettore: tutto a posto.

Sala conferenza


A metà mattina la sala si riempì e fu ora di cominciare.
L’evento veniva ripreso ed andava anche in live streaming quindi mi stavano seguendo anche i miei colleghi dall’ufficio.
Io ero lì anche per loro: per rendere onore ad un ottimo lavoro fatto insieme.
Partii un po’ incerto, ma poi mi scaldai e tutto andò liscio.

Video del talk e link alla presentazione

La presenza del mio amico Marco, in prima fila, contribuì a farmi sentire a mio agio.
In definitiva ciò di cui parlai era ciò su cui avevamo lavorato negli ultimi 10 anni, quindi era un argomento che avevo vissuto sulla mia pelle.
Anzi a dirla tutta alcune frasi di quel discorso erano le stesse cose con cui avevo ammorbato i miei colleghi negli ultimi anni: in sala caffè, in pausa pranzo perfino nell’antibagno. Insomma erano concetti che avevo avuto modo di affinare lungamente.
I feedback che raccolsi in sala e i contatti che ebbi con le persone che incontrai in giro per il resto della giornata furono tutti positivi: segno che il talk aveva funzionato.
Da casa chi aveva seguito il talk in streaming mi fece i complimenti via Whats App.
A pensarci bene la cosa fu paradossale. In tanti anni di lavoro, nella concitazione della quotidianità, non eravamo riusciti a trovare un momento istituzionale per fermarci a riflettere su ciò che avevamo costruito insieme.
Alla fine, poco prima di lasciare l’azienda, ero dovuto andare fino a Roma per parlare di questi temi ai miei colleghi che mi ascoltavano in streaming live da Ancona. A volte per andare in buca, bisogna giocare di sponda.
Fu una bella soddisfazione per me, ma volevo che rappresentasse anche una piccola rivincita, per tutti coloro che nell’ombra avevano contribuito a questo risultato e credo di esserci riuscito.

Quel giorno ho avuto la prova di ciò che avevo già letto.
Un talk deve contenere un messaggio chiaro supportato da una narrazione efficace e, per mantenere viva l’attenzione per 45 minuti, chi presenta deve mettere passione in ciò che dice.
Sul resto lascio giudicare a voi, ma la passione era sicuramente tanta.
Passammo il resto della giornata a seguire altri talk e conobbi Ludovico Caldara un altro collega ITOUG.

Talk del nostro collega ITOUG Ludovico Caldara
Sala conferenze principale
Sala esposizione centrale
Talk su Oracle APEX

E vissero per sempre felici e contenti, o no ?

Questo evento è stato uno snodo storico per la mia carriera professionale ? No. Di lì a poco avrei smesso di usare Oracle e comunque nessuno mi ha contattato in merito a ciò che ho presentato.
Questa esperienza mi ha cambiato ? Si molto perché ho superato una sfida che ho cercato. Questo ha alimentato la mia autostima in un momento in cui, dopo 13 anni, cambiavo azienda e mi attendevano altre sfide di cambiamento.
Il talk alla fine ha rappresentato anche un personale ringraziamento a tutti gli ex-colleghi con cui ho condiviso questa lunga ed intensa esperienza lavorativa.

In definitiva qualunque esperienza vissuta ci cambia ed influenza le nostre azioni future. Non è possibile risalire esattamente la catena degli eventi che si sono succeduti e che ci hanno reso ciò che siamo.

Dopo qualche tempo mi sono reso conto che la metafora del cambiamento non era casuale bensì inconscia.
A pensarci bene la metamorfosi che ho raccontato durante il talk aveva molto a che fare con il mio personale percorso di cambiamento che era in quel momento in pieno svolgimento.
Ironia della sorte nel periodo successivo la mia trasformazione non andò a buon fine: a volte succede.
Per una serie di motivi, nella nuova azienda, nonostante gli sforzi miei e dei colleghi, non riuscì ad integrarmi.
La mia autostima dopo aver raggiunto un massimo storico ebbe un crollo.
Fu una lezione importante sulla natura intrinseca della mia persona.
Trovai la forza di cambiare nuovamente azienda.
Oggi a due anni di distanza, con un po’ di pazienza, ho raggiunto un nuovo soddisfacente equilibrio, quindi posso considerare quella metamorfosi finalmente compiuta.

Il dono

Nel Dune di Villeneuve c’è una battuta del Barone Harkonnen passata un po inosservata che invece io ho trovato molto suggestiva e di cui credo non ci sia traccia nel libro.

Il Barone, scampato all’attentato suicida del Duca Leto, si sta curando dall’intossicazione del gas velenoso in una vasca Axolotl.
Rabban appena rientrato dalla smobilitazione di Arrakis, gli chiede irato perché mai l’Imperatore abbia voluto assegnare Dune agli Atreides: evidentemente per la mente semplice e lineare di Rabban ciò non ha senso.
Il Barone dalla mente tortuosa gli risponde in modo mellifluo con un indovinello: “Quando un dono non è un dono ?”
La significato é chiaro: “Quando nasconde un tranello” e ciò secondo me rimanda all’epica vicenda del cavallo di Troia.

Così quando un tuo superiore ti propone un nuovo incarico e te lo presenta come “un’importante opportunità di crescita” ed accompagna queste parole con una pacca sulla spalla, nel valutare l’offerta sarà bene riportare alla mente il quesito del Barone: “Quando un dono, non è un dono ?”

Il suk

Questo post nasce da una battuta, a dimostrazione di quanto l’ironia e l’auto ironia possano essere generativi in termini di creatività.

Un collega cambia ruolo e gli viene assegnata l’auto aziendale.
Questo fatto non passa inosservato.
In chat la butto sullo scherzo.
Quando lo hanno assunto gli hanno detto: “Ne farai di strada…”
e lui “E che, me la devo fare tutta a piedi !? ”
Così gli hanno concesso l’auto.

L’auto per l’italiano è sempre stato uno status symbol.
Per molti ottenere l’auto aziendale è considerata la conferma che si è salito un gradino.
Più semplicemente se la funzione che si ricopre prevede di andare spesso in visita dai clienti: in questo caso l’auto è uno strumento di lavoro come lo è lo smartphone.

Il COVID ha divelto anche queste convinzioni piuttosto radicate: il lock down ha reso del tutto inutili le auto ed il lavoro da remoto ne ha ridimensionato l’utilità.
La battuta però mi ha indotto a riflettere sul concetto di azienda benevola.

L’azienda benevola è quella che crede fortemente nell’importanza dei propri collaboratori e pertanto cerca di mantenere ed accrescerne il loro valore.
L’operato dei collaboratori è attentamente valutato sia in termini quantitativi e qualitativi per cui ad ogni risultato positivo corrisponde un riconoscimento. L’obiettivo è quello di mantenere elevata la motivazione e la produttività.
Forse è un’utopia, ma mi piace pensare che aziende del genere esistano veramente.

Per ora la mia esperienza mi ha insegnato che salvo rare eccezioni, nel mondo reale non ti regala niente nessuno.
In azienda se vuoi qualcosa devi dimostrare di meritartelo, ma soprattutto devi chiederlo.

E’ ingiusto naturalmente, ma chi non chiede non ha alcuna probabilità di ottenere.
Non solo, per ottenere è necessario avere consapevolezza del proprio peso negoziale.

Nella aziende miopi mediamente la politica è questa: se fai bene il tuo lavoro probabilmente hai una motivazione intrinseca. Se non ti concedo un incentivo continuerai comunque a fare bene il tuo lavoro. Quindi non ha senso incentivarti!
Se invece una persona è ritenuta a torto o a ragione “importante” e reclama un incentivo si interviene per soddisfare questo bisogno e mantenere la sua motivazione.
Ciò dovrebbe spiegare la famosa mossa del rilancio alla presentazione della lettera di dimissioni. In realtà quando ciò avviene si certifica solo una miopia conclamata.

E’ tragico, ma spesso chi dimostra non di essere uno speculatore: non ottiene.
Nel mondo occidentale capitalista: i soldi fanno girare il mondo e tutto ha un prezzo.
In un contesto del genere manifestare troppo chiaramente che il denaro non è in cima alla lista delle priorità può essere un problema.
Chi gestisce il potere è abituato a trattare con persone sensibili a questo argomento: il denaro è una leva facile da usare.
Quando questo leva manca, subentra un certo disorientamento ed è come trovarsi di fronte ad un alieno:
“Se la persona che ho davanti non crede nel denaro, chi mi assicura che un incentivo sia ben speso ? Inutile rischiare e comunque questa risorsa non sarà mai veramente sotto il mio controllo…”
Il ragionamento a questo punto si interrompe, ma dovrebbe continuare con: “In che cosa crede questa persona ? Quali sono i valori e i principi che lo guidano ? “

Il mondo del lavoro è un suk, in cui per fare buoni affari è necessario dedicarsi alla difficile e noiosa arte della negoziazione.
Se non siete abili in questa pratica o non amate mercanteggiare vi consiglio di cercare un contesto aziendale diverso: buona fortuna!

Problem solver

“Sai, mio padre aveva un’officina di lavorazioni meccaniche. Io sono cresciuto lì dentro, ho respirato quell’atmosfera, quell’odore di grasso e di olio.
Mi ricordo che a volte, quando c’era da fare un pezzo particolare, capitava di non avere l’attrezzo giusto e allora… si fabbricava!
Per cui ho assorbito quella mentalità: non fermarsi mai di fronte agli ostacoli, inventare soluzioni, perseguire l’obiettivo sempre, con slancio.”

Questo è quanto mi ha raccontato un amico e collega in pausa pranzo.
E’ stata un’immagine che mi ha fulminato, perché descrive in poche semplici parole le radici in cui affonda un modo di pensare e di essere in cui mi ritrovo perfettamente, quella del problem solver.

I software developer sono degli artigiani del software e sono abituati ad affrontare problemi sempre diversi usando la creatività e l’esperienza per risolverli.
A dire il vero i contesti in cui una tale mentalità può essere forgiata ed allenata sono numerosi e diversi, ma cosa li accomuna ?
Gli elementi di base direi che sono questi:

  1. un problema da risolvere
  2. scarsità di risorse
  3. una profonda motivazione

A questo punto con delle adeguate conoscenze di base e una buona dose di creatività ci sono buone probabilità di risolvere il problema.

Interrogandomi sulla figura del problem solver in azienda sono emersi altri quesiti che ritengo interessanti:

  1. quanto sono preziose le persone con questa mentalità ?
    Io credo siano fondamentali, ma se la loro opera è continuamente richiesta c’è qualcosa che non va. O siamo in un mercato turbolento o abbiamo qualche problema a livello di strategia e pianificazione.
  2. Quanto è diffusa questa mentalità in azienda ?
    I problem solver sono sempre di meno, perchè sono frutto della vecchia scuola che sta scomparendo. Un senior di valore dovrebbe avere un approccio del genere. Un junior con questa mentalità è una rarità, ma se ne trovano.
  3. Come identificare i problem solver ?
    Parlando con le persone si può percepire un certo modo di ragionare, ma questa forma mentis si rivela in modo chiaro in azione sul campo.
  4. Questa mentalità è intrinseca o si può insegnare ?
    Il vissuto di una persona e la sua psicologia contano molto secondo me. Però se è vero che la creatività si può insegnare, direi che un’attenta selezione, un formazione specifica unite ad un’efficace affiancamento sul campo da parte di un senior dovrebbero dare buoni frutti.
  5. La cultura aziendale promuove o soffoca i problem solver ?
    Nelle organizzazione piramidali il problem solver con un dna di micro-imprenditore: agile, operativo e concreto di solito soffre. Spesso si trova a fare il suo lavoro, ostacolato da procedure, che riducono l’efficacia del suo operato.
    Nella aziende più piccole con strutture orizzontali la mentalità da problem solver è vitale per la sopravvivenza dell’organizzazione stessa.
  6. I ragazzi oggi hanno l’opportunità di sviluppare queste capacità di adattamento e di problem solving ?
    Ho seri dubbi in proposito, ma potrei avere una visione troppo parziale.

Il tema della capacità di fabbricare oggetti con le proprie mani mi ha fatto tornare alla mente un racconto di fantascienza di Philip K. Dick intitolato “Diffidate dalle imitazioni”.

In uno scenario post-atomico le città sono state rase al suolo e gli uomini sono radunati in piccoli gruppi. Ciascuna comunità sopravvive solo grazie al proprio alieno centauriano che ha il potere di duplicare gli oggetti. Con il passare degli anni però gli oggetti duplicati si disgregano e si polverizzano. Gli alieni invecchiando producono oggetti sempre meno fedeli agli originali e difettosi. In un mondo distrutto e con uomini che hanno perso qualunque capacità manuale, la morte imminente dell’alieno segnerà il destino della comunità.
Esiste però un barlume di speranza. Un uomo proveniente da un’altra comunità ha con se qualcosa che potrebbe cambiare lo scenario
…(segue spoiler)

Spoiler
L’uomo porta con sé una ciotola ed un rozzo bicchiere che ha intagliati nel legno e spiega ad un altro, ormai privo di speranza:
“Dobbiamo imparare nuovamente a realizzare gli oggetti con le nostre mani. Ci vorrà tempo prima di tornare a produrre oggetti complessi e di una certa qualità, ma abbiamo imboccato la strada giusta e ce la faremo.”