La magia delle parole

Una foto che ho scattato durante una delle nostre passeggiate. Il bosco dischiude una vista panoramica sulla Vallesina. Massimo di spalle che contempla l’orizzonte.

Sbadalufo: numeroso, abbondante, in quantità enorme. Per esempio: “Mangiare a sbadalufo”. È un termine buffo e bizzarro che occasionalmente usava un mio caro amico, scomparso troppo presto. Credo sia un  termine dialettale della zona del fabrianese, ma non ne ho certezza. Non l’ho mai più sentito pronunciare. Rimane una parola dall’etimologia sconosciuta e misteriosa di cui non si trova traccia su Internet. È il mio personalissimo: ABRACADABRA. Una parola magica che mi fa rivivere la nostalgia di momenti spensierati e divertenti.

Il mio amico si chiamava Massimo, ma essendo Ingegnere era anche noto come l’Ing. Ci conoscemmo per motivi di lavoro. Aveva iniziato la sua carriera in IBM ed aveva sempre lavorato nel settore informatico. A livello professionale la stima fu immediata e reciproca e ben presto si sviluppò anche una sincera amicizia. I punti di contatto tra noi erano numerosi ed annullavano quasi venti anni di differenza d’età. Ci univa la passione per l’informatica, la lettura, la fisica, la curiosità, l’approccio ai problemi, la capacità di astrazione ed un certo senso dell’umorismo.

Per cinque anni lavorammo a stretto contatto, fu impegnativo, ma appagante. Spesso ci vedevamo a Fabriano e passavamo lunghe giornate nel suo ufficio in centro. Sempre gentile e disponibile, era un punto di riferimento insostituibile per tutti i suoi collaboratori che gli volevano molto bene. Per questa sua generosità veniva spesso risucchiato suo malgrado, in un vortice di impegni, telefonate ed interruzioni varie che gli impedivano di concentrarsi come avrebbe voluto. Fu in uno di questi momenti caotici che mi disse: “Allora Andrea. Quello che dovevamo cosare lo abbiamo cosato, adesso coso…” io risi e non potei che dirmi d’accordo con questa perla di astrazione.  

Entrare nel suo ufficio significava perdersi in un via vai di persone e voci che si accavallavano: un caos affascinante e divertente. Era lì che si consumavano le epiche schermaglie con i creativi. Lui recitava cantilenando: “Bisogna ricordare all’Art Director, che il Web è quadrato, non è curvo…” e la collega che per tutta risposta recitava: “Ricorda Massimo, che essere Ingegnere non è un sintomo, ma una diagnosi…”. Già, perché spesso i creativi facevano leggiadri voli pindarici, ma poi era lui che doveva dare forma e sostanza a quelle idee: un lavoro per niente facile. In fondo però questo è l’animo del nostro mestiere di progettisti, l’arte di trovare ogni volta quel delicato equilibrio tra astrazione e pragmatismo.

Quando lo conobbi aveva abbandonato le sigarette per la pipa e ciò, unito alla passione per il gioco del bridge, gli donava un fascino tipicamente inglese. Aveva sempre le mani occupate a maneggiare uno degli attrezzi che serviva ad ufficiare quel complicato rituale: il tabacco, lo scovolino e l’accendino. Così spesso capitava che nella confusione del momento, si dimenticasse ora l’uno ora l’altro, in giro per le scrivanie sotto fogli pieni di appunti.
La sua indole riflessiva e le sue pause nel formulare le frasi, si accordavano con i gesti lenti e pazienti che erano necessari per arrivare a produrre il primo sbuffo di fumo azzurrognolo. Ricordo anche il mio quaderno degli appunti che, aperto a distanza di tempo, rimandava ancora un sentore dall’aroma speziato del suo tabacco. Nella mia mente, lo rivedo ancora quando, verso ora di pranzo, mi diceva: “Dai, andiamoci a mangià na cosa…” accompagnando le parole ad un gesto con la testa. Così sgusciavamo fuori dall’ufficio dileguandoci. Percorrevamo strette viuzze in stile medievale per poi sbucare improvvisamente nella piazza principale di fronte alla fontana: uno spettacolo unico. La pausa pranzo era la nostra bolla protettiva. Un non luogo. Uno spazio tempo in cui niente e nessuno interrompeva le nostre chiacchiere.

Quando le nostre vite professionali si divisero, il nostro legame si distillò diventando pura amicizia. Quando ci incontravamo era solo per il piacere intellettuale che ne scaturiva. Facevamo le nostre lunghe passeggiate in montagna, immergendoci nella natura, ma sempre persi nei nostri ragionamenti tra informatica e vita privata, accompagnati dal suo cane Pepe. Nel silenzio del bosco rievocavamo aneddoti e storie della nostra vita con reciproco divertimento. Senza rendercene conto avevamo inventato una versione estesa della nostra pausa pranzo. Era un po’ come essere sulla Luna ad ammirare la Terra, in quei luoghi riuscivamo a guardare alle vicende della vita in modo lucido e razionale. Non potrò mai dimenticare quando mi consigliò di guardare il video di Alessandro Barbero (detto il Prof.) su Caporetto. Fu per me una scoperta entusiasmante e solo ora colgo l’aspetto buffo di questa storia: l’Ing. mi fece scoprire il Prof. . 

Il tempo che abbiamo trascorso insieme mi ha arricchito umanamente e professionalmente. Custodisco con cura quei momenti felici e preziosi ed ogni volta che voglio riportarli alla memoria mi basta pronunciare la parola magica: SBADALUFO!

HR d’altri tempi

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Dopo aver visto la serie “The house of the Dragon”, ho tratto qualche interessante riflessione.
Dunque per diventare cavaliere di drago è semplice.
Funziona così. Il candidato si presenta fiducioso di fronte alla bestia gigantesca. Quella gli si avvicina minacciosa e lo annusa per bene. Se gli piace è assunto, altrimenti lo arrostisce vivo sul posto.

Senza dubbio un sistema di selezione del personale molto efficiente.
Nessune incertezza o lungaggine.
Nessuna inutile frase ipocrita del tipo: “Le faremo sapere”.
Nessuna ulteriore possibilità per la serie: “Ritenta, sarai più fortunato”.
In questo caso un no è per sempre.

Il cavo “esplosivo”

Immagine creata con https://creator.nightcafe.studio/studio

Se mi metto a fare il conto degli anni trascorsi dalla mia prima esperienza lavorativa scopro che se ne sono andati quasi 30 anni: era una vita fa.
C’erano Windows 3.1 e Visual Basic 3.0, ma Internet non era ancora tra noi.
Per mettere in comunicazione un pc con i dispositivi elettronici si usavano i cavi seriali. Quando me ne serviva uno andavo nel reparto di elettronica prendevo: un cavo, due connettori a vaschetta il saldatore e me lo costruivo. Era una prassi diffusa, ormai ascrivibile tra le abilità da vecchia scuola.
L’alternativa era di “prendere in prestito” un cavo già pronto di qualcun altro.

Un giorno ero presso la postazione di un collega, sulla scrivania era appoggiato un cavo seriale grigio. Notai che per tutta la sua lunghezza c’erano una serie di piccoli caratteri blue, scritti a penna da mano umana con pazienza certosina. Incuriosito, cominciai a scorrere con lo sguardo il messaggio nascosto in quelle lettere minute che recitava in tono di ammonimento:
“QUESTO CAVO FUNZIONA SOLO SE USATO DAL PROPRIETARIO, IN TUTTI GLI ALTRI CASI ESPLODE”.
Trovai quell’idea geniale e divertente. Il proprietario ridendo mi disse: “Ti piace, aspetta.”. Prese il cavo in corrispondenza della scritta, lo tese e lo ruoto delicatamente di 180 gradi per tutta la sua lunghezza.
Sull’altro lato c’era un altro messaggio che proseguiva e concludeva il primo:
“E MO, FREGATEVE PURE QUESTO!”.

Mi piace pensare che quel sistema antifurto così atipico alla fine abbia funzionato.

Carte in regola

Scartoffie

Qualche anno fa, mentre stavo lavorando con un mio collega anche lui software developer, aprii una parentesi e gli feci una delle mie solite tirate sul Clean Code.
Lui mi ascoltò pazientemente e poi se ne uscì con una frase che a distanza di anni ancora mi tormenta:
“Vedi Andrea, in definitiva, dopo dieci anni di lavoro, ho capito che l’importante è avere le carte in regola.”.

Io rimasi scioccato ed incredulo che qualcuno potesse arrivare a fare una tale affermazione. Dopo qualche esitazione gli dissi gentilmente:
“Non pensi invece che se ci impegnassimo a realizzare software funzionante, avremmo già risolto l’ottanta percento dei nostri problemi e potremmo fare a meno di tante inutili scartoffie? “

Questo episodio mi fece riflettere parecchio. Presi consapevolezza che quel contesto organizzativo era talmente tossico che nel tempo era riuscito ad azzerare completamente il buonsenso di quella persona. La mentalità dell’artigiano, quella che caratterizza i bravi software developer, era stata sostituita con quella di un freddo burocrate.

Il lavoro che facciamo è maledettamente difficile: forniamo soluzioni a problemi. Per fare ciò dobbiamo capire il problema scomporlo in parti più piccole e crearne un modello digitale. Il nostro è un lavoro intellettuale altamente creativo, in cui la passione gioca un ruolo importante.
Questa complessità molte persone non la percepiscono.
I primi a non capirla spesso siamo noi stessi developer, che di consegunza non ci sappiamo raccontare. Spostandosi a livelli gerarchici superiori la situazione non può certo migliorare tanto che, e a causa di un combinato disposto di ignoranza e malafede, siamo etichettati genericamente con sdegno come: “tecnici”. Agli albori dell’informatica qualcuno ha pensato che se il taylorismo aveva funzionato per la catena di montaggio, avrebbe funzionato anche per il software facendoci diventare gli operai del digitale, ma evidentemente non è così.

Finché l’AI non ci sostituirà del tutto, le aziende avranno bisogno di esseri umani che svolgano questo lavoro.
Il punto è che gli esseri umani sono organismi delicati, da trattare con cura, altrimenti si va incontro ad una serie di effetti collaterali: funzionano male, smettono di funzionare, si rompono o cambiano azienda.
Ho sperimentato sulla mia pelle che, per produrre software di qualità decente, è necessario un buon equilibrio psicofisico. L’azienda perciò avrebbe tutto l’interesse a creare è mantenere un clima di lavoro non tossico. Il problema è che per creare e mantenere un ambiente di lavoro sereno e collaborativo serve molto impegno. Bisogna operare avendo come obiettivo la sostenibilità del lavoro. Invece l’unico obiettivo sui cui tutti sono allineati è il budget trimestrale. Questa impostazione spesso induce a scelte miopi e impedisce di mantenere il focus sul core business: il software che è il risultato della conoscenza di dominio e delle persone.
In nome del budget si fanno guerre sante in cui il fine giustifica i mezzi senza considerare i danni collaterali.
Così prendonono vita i famosi progetti “bagno di sangue”, che richiedono eroici sacrifici e che alla fine contano un gran numero di “morti” e “feriti” tra i soldati.

Un team di software developer è un insieme di persone creative, come tale costituisce un delicato ecosistema di rapporti interpersonali, il cui buon funzionamento è garantito più dalla psicologia della comunicazione che dalle procedure. Se i componenti di un team sono mediamente motivati e riescono a lavorare in un clima sereno, non è necessario fare micro management, probabilmente il team si auto organizza.

Quel mio collega poi ebbe l’opportunità di cambiare ruolo. L’ho incontrato recentemente e l’ho trovato in ottima forma, sereno e ottimista.
Il sistema evidentemente non lo ha riprogrammato completamente, ne sono felice. Gli ho accennato quell’epico scambio di battute, ma lui neanche se lo ricordava!
A questo punto, non mi resta che augurare buone scartoffie a tutti.




Il mio tesoro

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Un amico mi ha raccontato un aneddoto interessante. Neo assunto, al primo lavoro, un collega con qualche anno di esperienza gli bisbigliò il segreto assoluto per mantenere a vita il posto di lavoro: “Impara a fare bene qualcosa e stai bene attento a non divulgare a nessuno questa tua conoscenza. Ciò ti renderà insostituibile e l’azienda non potrà più fare a meno di te.”.

Imparare a fare bene il proprio mestiere è fondamentale e nel nostro ambito non si finisce mai di affinare la propria arte. Nelle aziende, per negoziare la propria posizione, può essere utile avere un certo peso, ma pensare che essere l’unico depositario di un segreto sia la carta vincente per mantenere il proprio posto di lavoro secondo me è folle.
Imbullonarsi alla propria posizione e alle proprie conoscenze avrà come unica conseguenza quella di essere rigidi e fragili rispetto a un mondo che cambia vorticosamente. Inoltre, ciò che fino ad oggi sapevate fare solo voi, forse domani lo farà l’AI.

Un’azienda sana deve evitare assolutamente di rimanere ostaggio di una persona, pertanto queste situazioni andrebbero evitate o disinnescate in tempo utile. Arroccarsi su una posizione mette in risalto la vostra mancanza di flessibilità e questa skill è proprio ciò che serve all’azienda per navigare nelle acque agitate del mercato.

Le aziende sane adottano un sistema organizzativo collaborativo. In questo ambito la conoscenza viene condivisa e diffusa all’interno del team per agevolare la comunicazione e la cooperazione. In questi ambienti aiutare i colleghi e fare formazione verso i più giovani è fondamentale per creare un clima positivo e di crescita professionale.

Se siete convinti che accumulare informazioni e non condividerle aumenti il vostro valore aziendale, state attenti alla ricchezza che andate accumulando, perché alla lunga quella valuta potrebbe andare fuori corso e determinare la vostra rovina. Piuttosto domandatevi se il vostro lavoro vi fa crescere in termini di competenze o di soft skill, perché questo vi renderà capaci di affrontare eventuali future turbolenze e di migliorare la vostra posizione.

Non si tratta di lottare per mantenere lo status quo, ma di dedicarsi alla ricerca di un equilibrio dinamico.

Quasi magia

Molti anni fa, credo fosse il 1998, fui testimone di un surreale scambio di battute tra colleghi. I due erano entrambi software engineer con esperienza, ma diversissimi tra loro. In quel periodo stavano collaborando ad un progetto problematico e formavano una strana coppia. S. era il leader: giovane, geniale e irriverente. C. un ingegnere preciso, metodico, ma introverso. Io ero alle prime armi e le dinamiche di questo team atipico mi affascinavano molto.
Quel giorno mi trovavo a parlare con S. alla sua scrivania quando C., nella postazione a fianco, in un inaspettato slancio di gentilezza, si girò e chiese a S.:
“Senti, devo scrivere quella funzione in C++ che poi dovrai invocare, che parametri preferisci in ingresso ?”
S. si tormentò il pizzetto per qualche istante con fare pensoso e poi rispose serio e risoluto: “Guarda, facciamo una cosa semplice…” Poi fece una pausa studiata ad arte e proseguì: “Definisci una funzione che accetta in ingresso solo una stringa. Così io scrivo in linguaggio naturale quello che la funzione deve fare e lei lo fa…”.
Rimanemmo in silenzio per alcuni secondi, guardando C. che cercava di assorbire il colpo. L’espressione interrogativa del suo viso lasciò il posto prima all’incredulità e poi alla delusione. Alla fine disse laconicamente: “Ho capito…” e tornò a rivolgersi al suo schermo. Noi naturalmente scoppiammo a ridere.

Finora questo era solo uno spassoso aneddoto a testimonianza della brillantezza di S. .
Qualcosa però è cambiato perché a distanza di 25 anni la rivoluzione dell’AI Generativa ha inaspettatamente dato corpo a quella battuta nonsense.
Così oggi, ogni volta che penso a quella frase, un brivido freddo mi attraversa la schiena. Risento S. pronunciare quelle parole: “Io scrivo in linguaggio naturale quello che deve fare e lei lo fai…” e lei lo fa. È quasi magia.

Best practice


Molti anni fa, agli albori della mia carriera professionale, partecipai ad un corso di team building. Svolgemmo numerose esercitazioni, ma ce ne fu una che più delle altre lasciò in me un segno indelebile.
L’esercizio prevedeva di risolvere un puzzle piuttosto complicato in un tempo limitato attenendosi rigorosamente alle regole che erano state scritte alla lavagna.
A circa metà del tempo il formatore, senza dire nulla, attaccò alla lavagna un disegno con la soluzione. Noi incuranti proseguimmo il nostro lavoro tentando di risolvere il rompicapo.
Il tempo a nostra disposizione terminò e non trovammo la soluzione.

Il formatore chiese chi avesse notato la presenza della soluzione e chi l’avesse utilizzata per risolvere l’esercizio. Io in effetti l’avevo notata, ma non l’avevo presa in considerazione avevo pensato tra me: “Troppo facile, copiare non vale”.
Il formatore ci fece notare però che tra le regole non era inclusa quella di non copiare. In effetti l’obiettivo dell’esercizio era dimostrare che il mindset influenza il comportamento e tende a ridurre lo spazio di ricerca della soluzione. Inoltre essere troppo focalizzati sul problema a volte impedisce di cogliere eventuali preziosi aiuti esterni: pensiero laterale. Nel caso specifico ci svelò che siamo cresciuti con l’idea che copiare è sbagliato e con il senso di colpa che ne deriva.

In quel momento presi consapevolezza di quanto la mia visione del mondo fosse influenza dal retroterra culturale d’origine.
Il messaggio che passò è che il mondo del business è spietato, conta il risultato e non come ci si arriva. Io sarò romantico, ma a questa idea di un mondo cinico e crudele non mi sono mai piegato.
Però è innegabile che copiare sia uno sport molto diffuso. Forse è per questo tendiamo a parafrasare. Per esempio “Prendere spunto” suona già meno peccaminoso. Domani quando qualcuno vi apostroferà sdegnato:
“Ehi, ma tu hai copiato!” potrete sempre rispondere sorridenti e sornioni:
“No, certo che no. Ho solo applicato una best practice”.

AI generativa

Foto di Gerd Altmann da Pixabay

La rivoluzione digitale ha semplificato molte attività aumentando i “poteri” degli esseri umani e inducendo evidenti effetti collaterali, ne parlavo tempo fa qui. L’uomo, grazie alla tecnologia digitale ha migliorato l’accesso alle informazioni e la capacità di memorizzazione, ma finora la creatività era una dote esclusiva e personale. Un dono raro, dalle origini misteriose e dai meccanismi sfuggenti.
Con l’AI generativa è stato superato anche questo limite. Usando un’AI (es. ChatGpt) e fornendo le giuste indicazioni, chiunque può generare un racconto, una canzone, una poesia. Questo cambia significativamente le cose e fa emergere una serie di domande inquietanti.

Come potremo sapere se una creazione è umana o artificiale ? Forse servirà la tracciabilità delle opere. Se non possiamo attribuire la paternità delle opere i concorsi e le prove d’esame dovranno essere dal vivo e preferibilmente di tipo orale. Un curioso paradosso, abbiamo appena sperimentato l’utilità delle attività a distanza e dobbiamo già tornare alla presenza fisica ? Ha senso parlare di diritti d’autore per un’opera generata ?

Avere a disposizione questa potenza creativa ci renderà tutti poeti e scrittori o invece appiattirà l’offerta?
I creativi saranno spinti a fare meglio, si ritireranno o troveranno il modo di cooperare con le AI ?
Se un’AI venisse addestrata su tutto lo scibile umano potrebbe essere considerata rappresentativa dell’umanità nel suo insieme ?

Quando l’AI diventerà tascabile e sarà addestrata in modo continuo con tutti i nostri dati personali, essa diventerà un nostro doppio digitale che ci migliorerà a tutti i livelli. Gli smart glasses e l’AI ci renderanno umani potenziati. Più sarà potente il modello, maggiore saranno le performance. Se prima ciascuno poteva trovare nella propria creatività un potente fattore competitivo innato, in futuro il denaro potrà sopperire a questa mancanza.
L’arte umana perderà valore per inflazione di opere generate e co-generate o lo acquisterà diventando ancora più rara?

Quando saremo defunti il nostro io digitale sopravvivrà ? I nostri amici potranno chattare ancora con il nostro “spirito” digitale ? Il doppio, privato dell’esperienza della vita, rimarrà fermo al suo tempo diventando noioso? Forse gli forniremo falsi ricordi di nuove esperienze per mantenerlo “vivo” ? Se alla morte fisica non corrisponderà una morte digitale, il nostro io digitale potrebbe vivere in eterno, ammesso che ci sia energia per sostentarlo. Sarebbe una sorta di vita eterna digitale.

L’AI generativa è sostenuta da un modello di comprensione del linguaggio addestrato su una grande mole di dati. Secondo lo storico Yuval Noah Harari (“Sapiens. Da animali a dèi”) il linguaggio è stato il fattore chiave di successo della specie umana. Ora questa è un’abilità digitale e come tale può essere sviluppata, condivisa, clonata: una vera rivoluzione. L’AI è molto vicina a superare il test di Turing. Ciò avvicinerà le macchine agli esseri umani e i confini inizieranno a sfumare. Presto sarà possibile ciò che Philiph K. Dick teorizzava nei suoi romanzi il Dottor Sorriso: un servizio digitale completamente automatico di psicanalisi. Per ora l’AI non ha consapevolezza di se e non ha un corpo fisico, ma quando avremo superato anche queste barriere, ci servirà il test Voight-Kampff del film “Blade Runner” per distinguere un essere umano da un androide.
Comunque se va male, male, male sappiamo già che vincerà SkyNet .

Tessere la tela della fiducia

“Le ali della libertà” 1994 scritto e diretto da Frank Darabont tratto dal racconto “The Shawshank Redemption” di Stephen King. Disponibile su Amazon Prime

Questa è una sequenza del film “Le ali della libertà”.
Il film racconta la storia di un uomo ingiustamente condannato Andy Dufresne (Tim Robbins) che deve scontare una lunga pena detentiva in carcere.
Il film è particolarmente toccante e questa è una delle scene che amo.

In questa sequenza Andy, esce dal ruolo di carcerato e lo fa in modo temerario. Sfotte volutamente il capo delle guardie, sfidando platealmente il suo potere. A prima vista si tratta di un suicidio, ma non è così. Possiamo considerarla piuttosto una tecnica di marketing estremo. Uno scarafaggio in mezzo a tanti altri che deve guadagnare l’attenzione del capo sorvegliante.
Sfida il potere e la forza bruta facendo leva sull’ambizione del secondino di sottrarsi a quel potere da cui a sua volta è soggiogato: il Fisco.
Già perché, fuori da lì, i carcerieri sono oppressi da quella legge che nel carcere fanno rispettare. Andy però si dice in grado di navigare tra le pieghe della burocrazia e conquista così la fiducia del capo delle guardie. Impresa difficile visto che deve farlo senza delegittimarlo di fronte ai tutti i presenti. Non solo, azzera il contro valore di questa bizzarra transazione, limitandosi a chiedere in cambio delle birre per i suoi “colleghi”.
Ciò naturalmente rappresenta solo una prima piccola vittoria tattica rispetto alla strategia che ha in mente di dispiegare. Questa è soprattutto una grande vittoria simbolica.

Quell’uomo esile ed indifeso ha fatto un incantesimo. Sotto gli occhi di tutti ha fermato il tempo e sovvertito i ruoli anche se solo per un attimo. Da scarafaggio ha riacquistato una sua dignità fino a diventare addirittura un consulente del suo carceriere: impensabile. Il denaro qui si riconferma ancora una volta la forza oscura che può tutto ed è in grado di annullare: Gerarchia, Legge, Stato.
I suoi compagni ora sono colleghi, lavoratori con una dignità.
Quel tetto anonimo, per un attimo, diventa per Andy e i suoi compagni il tetto del mondo.

Questa sequenza mi ha indotto ad una serie di riflessioni sul concetto di fiducia nell’ambito di team di lavoro.
Come si instaura un rapporto di fiducia in un team ?
Direi nel tempo con pazienza. Dimostrando l’un l’altro coerenza nelle parole e nelle azioni. Azioni che debbono avere come finalità un obiettivo comune e non personale.
Qual é il primo passo concreto per dimostrare fiducia ? Un dono disinteressato che dimostri una generosità sincera. Un gesto di solidarietà a beneficio del team. Andy fa questo, si lancia in una sfida folle, corre un rischio personale. Vince e quando riscuote il premio lo dedica agli altri: lui la birra neanche la beve. Nell’ambiente carcerario dove tutto è ridotto a merce di scambio e non c’è posto per i sentimenti umani, questo atto di solidarietà rende Andy un alieno, ma anche una persona di cui potersi fidare.

Costruire un rapporto di fiducia tra colleghi è un lavoro lungo e faticoso. Bisogna essere sinceri, trasparenti e curare la comunicazione. Avere pazienza, chiedere scusa e ringraziare, usare gentilezza nei rapporti. Tutto ciò alla lunga rende l’ambiente sereno e collaborativo. Se c’è un problema, non si cerca il colpevole, ma si coopera per risolverlo, poi si cerca la causa e si adotta un sistema per evitare che il problema si presenti nuovamente.

Lavorare in un team basato sulla fiducia fa sentire le persone al sicuro e crea quindi le condizioni migliori per lavorare sereni. Sentirsi psicologicamente sicuri è la condizione necessaria per affrontare nuove sfide, perché insieme ci si sente più forti e si ha il coraggio di affrontare l’ignoto. La fiducia è come la seta del ragno, un materiale delicato che se tessuta con maestria, può formare una tela robusta. La tela della fiducia è preziosa perché rappresenta una rete di sicurezza che protegge da eventuali errori o cadute.
Credo che la fiducia sia un elemento imprescindibile per il buon funzionamento di un team, per questo è importante che ciascuno si impegni a tessere questa rete dal filamento sottile ma tenace.

Il “tunnel” delle patatine

“Dai forza, mangiane ancora uno…”
“Mamma, te l’ho detto, non mi va.”
“Devi mangiare altrimenti non cresci. Quante volte te lo devo dire Galactus.
Dai un ultimo pianeta poi basta…”

Quando una mia amica invia sulla chat una foto del genere significa che il livello di stress sul lavoro è alto.

Patatine come soluzione allo stress ?

Pensare di alleviare questo disagio con le patatine credo sia un’illusione.

Certo avventarsi su quelle croccanti sfoglie salate e lasciarsi cullare dalle basse frequenze dello sgranocchiare è liberatorio, ma non porta avanti il vostro lavoro, anzi probabilmente lo rallenta.

E’ come se le patatine rappresentassero i problemi che dovete affrontare: mangiarle vi dà l’illusione di affrontarli e risolverli.
Uno psicologo direbbe che siamo in presenza di un transfer. Vi sentite oppressi dal lavoro e scaricate la frustrazione distruggendo quelle povere patatine indifese, per dimostrare che avete il predominio su qualcosa.
A dirla tutta il potere magico di far sparire un pacchetto di patatine in poco tempo è molto diffuso, lo pratico anche io ogni tanto.
Galactus invece quando è stressato mastica piccoli asteroidi.

D’altra parte un segreto che quelli del marketing degli snack hanno tenuto ben custodito fino a qualche tempo fa è questo: qualunque cibo salato che faccia “crunch” vende un casino.

Con queste patatine come vogliamo fare ? L’ideale sarebbe andare alla radice del problema.
Usare la filosofia Toyota dei cinque perché, capire cosa sia fonte di stress e trovare una soluzione.
A volte la causa potrebbe risiedere nel ruolo ricoperto, oppure peggio nell’ambiente tossico, ma in questo caso la soluzione potrebbe richiedere scelte drastiche e complesse.
Chiaro che risolvendo un problema del genere rischieremmo il tracollo del mercato degli snack e questo non ce lo possiamo permettere.

In alternativa vi consiglio di provare almeno ad invertire la logica.
Datevi dei piccoli obiettivi, concentratevi su di essi ed ogni volta che ne raggiungete uno fermatevi e premiatevi con qualcosa che vi gratifica
(anche il mercato degli orsetti di gomma va forte).
Probabilmente con questo metodo si ingrassa lo stesso, ma almeno si rimane produttivi.
Inoltre spuntando gli obiettivi raggiunti nell’arco della giornata, potreste rendervi conto che lo stress è causato dalla quantità esagerata di lavoro che dovete svolgere e non dalla vostra scarsa produttività.
Forse questo vi farà sentire meno in colpa e magari vi porterà a riflettere su voi e sul vostro lavoro.