Questo aforisma sintetizza in modo efficace lo spaesamento che proviamo di fronte ad un mondo che muta.
La mia generazione è cresciuta in un periodo storico di pace, benessere e prosperità. I nostri figli sono nativi digitali e per loro, apparentemente nulla è impossibile “Basta un clic”, ne avevo già scritto qui. La società del consumo ci ha indotto a pensare alla vita come una strada piatta e diritta che si perde all’orizzonte. Come se vivessimo in uno spot: “Rilassati e goditi il panorama”. La realtà è diversa e sta emergendo in tutta la sua crudezza. Il mondo sta cambiando sotto i nostri occhi in modo tumultuoso e noi siamo lì attoniti a guardare. La strada si sta rivelando a tratti ripida, tortuosa, sconnessa. L’auto, che viaggiava silenziosa ad alta velocità, ora arranca ed emette rumori poco rassicuranti.
Le parole sono ciò che usiamo per descrivere il mondo, ma per abitare un mondo che cambia abbiamo bisogno di parole diverse. Quelle che ci servono per affrontare questa sfida non sono necessariamente nuove. Alcune sono finite in soffitta e se ne stanno chiuse in una cassa a prendere polvere. Ne abbiamo altre antiche di cui noi abbiamo dimenticato l’utilità e di cui i nostri figli ignorano perfino l’esistenza. Sono parole con un significato ed un valore, ma che abbiamo messo da parte, convinti non ci servissero più e che forse è ora di rispolverare. Me ne vengono in mente parecchie: pazienza, curiosità, desiderio, parsimonia, fragilità, noia. Tra le tante sceglierei: adattamento ed immaginazione.
La capacità di adattamento è ciò che rende possibile continuare a vivere reagendo ai mutamenti. L’abilità che garantisce la sopravvivenza nel presente.
L’immaginazione è ciò che distingue l’uomo dagli altri animali e che ci fa intravvedere un futuro diverso. È l’elemento che dà vita al desiderio, alla creatività e all’innovazione. Con l’immaginazione possiamo pensare un mondo diverso e questo sarà il primo passo verso la sua ricostruzione.
Una foto che ho scattato durante una delle nostre passeggiate. Il bosco dischiude una vista panoramica sulla Vallesina. Massimo di spalle che contempla l’orizzonte.
Sbadalufo: numeroso, abbondante, in quantità enorme. Per esempio: “Mangiare a sbadalufo”. È un termine buffo e bizzarro che occasionalmente usava un mio caro amico, scomparso troppo presto. Credo sia un termine dialettale della zona del fabrianese, ma non ne ho certezza. Non l’ho mai più sentito pronunciare. Rimane una parola dall’etimologia sconosciuta e misteriosa di cui non si trova traccia su Internet. È il mio personalissimo: ABRACADABRA. Una parola magica che mi fa rivivere la nostalgia di momenti spensierati e divertenti.
Il mio amico si chiamava Massimo, ma essendo Ingegnere era anche noto come l’Ing. Ci conoscemmo per motivi di lavoro. Aveva iniziato la sua carriera in IBM ed aveva sempre lavorato nel settore informatico. A livello professionale la stima fu immediata e reciproca e ben presto si sviluppò anche una sincera amicizia. I punti di contatto tra noi erano numerosi ed annullavano quasi venti anni di differenza d’età. Ci univa la passione per l’informatica, la lettura, la fisica, la curiosità, l’approccio ai problemi, la capacità di astrazione ed un certo senso dell’umorismo.
Per cinque anni lavorammo a stretto contatto, fu impegnativo, ma appagante. Spesso ci vedevamo a Fabriano e passavamo lunghe giornate nel suo ufficio in centro. Sempre gentile e disponibile, era un punto di riferimento insostituibile per tutti i suoi collaboratori che gli volevano molto bene. Per questa sua generosità veniva spesso risucchiato suo malgrado, in un vortice di impegni, telefonate ed interruzioni varie che gli impedivano di concentrarsi come avrebbe voluto. Fu in uno di questi momenti caotici che mi disse: “Allora Andrea. Quello che dovevamo cosare lo abbiamo cosato, adesso coso…” io risi e non potei che dirmi d’accordo con questa perla di astrazione.
Entrare nel suo ufficio significava perdersi in un via vai di persone e voci che si accavallavano: un caos affascinante e divertente. Era lì che si consumavano le epiche schermaglie con i creativi. Lui recitava cantilenando: “Bisogna ricordare all’Art Director, che il Web è quadrato, non è curvo…” e la collega che per tutta risposta recitava: “Ricorda Massimo, che essere Ingegnere non è un sintomo, ma una diagnosi…”. Già, perché spesso i creativi facevano leggiadri voli pindarici, ma poi era lui che doveva dare forma e sostanza a quelle idee: un lavoro per niente facile. In fondo però questo è l’animo del nostro mestiere di progettisti, l’arte di trovare ogni volta quel delicato equilibrio tra astrazione e pragmatismo.
Quando lo conobbi aveva abbandonato le sigarette per la pipa e ciò, unito alla passione per il gioco del bridge, gli donava un fascino tipicamente inglese. Aveva sempre le mani occupate a maneggiare uno degli attrezzi che serviva ad ufficiare quel complicato rituale: il tabacco, lo scovolino e l’accendino. Così spesso capitava che nella confusione del momento, si dimenticasse ora l’uno ora l’altro, in giro per le scrivanie sotto fogli pieni di appunti. La sua indole riflessiva e le sue pause nel formulare le frasi, si accordavano con i gesti lenti e pazienti che erano necessari per arrivare a produrre il primo sbuffo di fumo azzurrognolo. Ricordo anche il mio quaderno degli appunti che, aperto a distanza di tempo, rimandava ancora un sentore dall’aroma speziato del suo tabacco. Nella mia mente, lo rivedo ancora quando, verso ora di pranzo, mi diceva: “Dai, andiamoci a mangià na cosa…” accompagnando le parole ad un gesto con la testa. Così sgusciavamo fuori dall’ufficio dileguandoci. Percorrevamo strette viuzze in stile medievale per poi sbucare improvvisamente nella piazza principale di fronte alla fontana: uno spettacolo unico. La pausa pranzo era la nostra bolla protettiva. Un non luogo. Uno spazio tempo in cui niente e nessuno interrompeva le nostre chiacchiere.
Quando le nostre vite professionali si divisero, il nostro legame si distillò diventando pura amicizia. Quando ci incontravamo era solo per il piacere intellettuale che ne scaturiva. Facevamo le nostre lunghe passeggiate in montagna, immergendoci nella natura, ma sempre persi nei nostri ragionamenti tra informatica e vita privata, accompagnati dal suo cane Pepe. Nel silenzio del bosco rievocavamo aneddoti e storie della nostra vita con reciproco divertimento. Senza rendercene conto avevamo inventato una versione estesa della nostra pausa pranzo. Era un po’ come essere sulla Luna ad ammirare la Terra, in quei luoghi riuscivamo a guardare alle vicende della vita in modo lucido e razionale. Non potrò mai dimenticare quando mi consigliò di guardare il video di Alessandro Barbero (detto il Prof.) su Caporetto. Fu per me una scoperta entusiasmante e solo ora colgo l’aspetto buffo di questa storia: l’Ing. mi fece scoprire il Prof. .
Il tempo che abbiamo trascorso insieme mi ha arricchito umanamente e professionalmente. Custodisco con cura quei momenti felici e preziosi ed ogni volta che voglio riportarli alla memoria mi basta pronunciare la parola magica: SBADALUFO!
Un amico, a proposito della difficile arte della scrittura ama dire: “Dalla testa alla mano la strada è lunga”. Questa cosa non mi è mai sembrata tanto vera quanto oggi. Quanti millisecondi trascorrono da quando l’idea di un accordo musicale si forma nella mia mente a quando un segnale elettrico attraverso il sistema nervoso arriva ai muscoli delle mani e le anima per dare vita a quel suono? Secondo studi scientifici tra i 100 e 200 millisecondi, a seconda della condizione psicofisica. Nel mio caso ho la sensazione che ci voglia un’eternità. Chi l’avrebbe mai detto che l’elettricità, l’energia stessa del fulmine, potesse rallentare sotto il peso degli anni.
Agli inizi di carriera non mi sono mai chiesto come fosse possibile che le mie mani volassero così rapide al ritmo del pensiero, era quasi come se avessero vita propria e memoria dei passaggi. Sono stati tanti i momenti magici che mi sono goduto insieme alla band e al pubblico. Oggi quando cerco di eseguire alcuni assoli che mi hanno reso famoso in tutto il mondo, devo arrendermi all’evidenza che non riesco più. La mente conosce perfettamente la posizione che deve assumere la mano sinistra sulla tastiera della chitarra, la corda da pizzicare, il ritmo e l’effetto da imprimere con la mano destra, ma quello che mi arriva all’orecchio non è la musica che ho pensato, perché i muscoli reagiscono più lentamente. Eppure, quella melodia l’ho creata io una vita fa, non la posso dimenticare, l’ho costruita nota su nota. Ora mi dovrei pentire di avere scritto passaggi troppo arditi, che non riesco più ad eseguire al massimo livello? No. Sono le regole del gioco, ma me ne rendo conto solo ora.
La musica in definitiva è solo un’idea che si trasforma in un’onda sonora ed eventualmente in un’emozione, si tratta di un processo di trasformazione. C’è lo strumento e c’è il musicista, li devi combinare insieme, ma suonare è un’operazione dannatamente complessa e faticosa. Come si fa ad essere così ingenui e scegliere un lavoro così intimamente legato alla salute psicofisica? Chiunque potrebbe dirti che ad un certo punto, semplicemente non ce la farai più, proprio come accade agli atleti. Già. Ma un lavoro così non lo scegli; è una vocazione a cui è impossibile sottrarsi. Se qualcuno, da ragazzo, mi avesse messo in guardia, non lo avrei di certo ascoltato. Se non avessi seguito questa insana passione per la musica, forse ora sarei rotto e consumato per avere fatto l’operaio, quindi mi considero un privilegiato.
Fare musica è un lavoro affascinante in tutte le sue fasi: la scrittura, l’arrangiamento, la registrazione in studio e poi i concerti dal vivo. Certo ci sono anche dei prezzi da pagare. Per esempio, ripetere all’infinito certi successi, anche se non li senti più tuoi, anche se non ce la fai più. Già perché i fan dicono di amarti, ma il loro è un amore tossico che li rende spietati. Non accettano l’idea che la vita vada avanti e che tu cresca come persona e come artista. Vorrebbero che suonassi le hit che ti hanno reso famoso, come fossi un jukebox a gettone per sempre. La discografia da questo punto di vista, per un lungo periodo ha funzionato bene. L’idea era di eseguire una volta in studio un brano, inciderlo su un supporto e riprodurlo a piacere. In quell’epoca i tour erano un diversivo divertente, poi è arrivato il formato digitale ed ha distrutto l’editoria musicale. Ad oggi l’unico modo per sostenere il business sono i concerti dal vivo. Naturale, tutti cercano l’esperienza intima, quindi sei chiamato ad esibirti in giro per il mondo con la band. Ciascuno vorrebbero sentirti suonare al massimo livello, lo stesso dei tuoi inizi di carriera. Ciò non è umanamente possibile, ma viviamo nella società che vorrebbe dimenticare il tempo, il decadimento e la morte: tutti elementi strettamente connessi alla nostra natura di esseri umani.
Ci ho provato per amore del pubblico, ma suonare certe canzoni non è più istintivo. Devo concentrarmi per cercare ogni singolo accordo e certi passaggi comunque non riescono più come vorrei. Mi sono chiesto se ciò avesse ancora senso. È veramente frustrante sperimentare che con cinquanta anni di carriera alle spalle, la tua performance invece di migliorare peggiora. Senza contare che le stesse persone che cercano l’esperienza diretta, passano gran parte del concerto a riprenderti con lo smartphone, invece di godere di quel momento unico e irripetibile, come sarebbe normale aspettarsi. Per qualche artista il successo è rimanere congelato in un personaggio, tentando di rimanere identico a sé stesso immutabilmente: stesso abbigliamento, stesso ciuffo, stesse canzoni. Non fa per me. Io quando mi vedo da giovane che salto sul palco smilzo e capelluto, faccio fatica a riconoscermi. Non mi interessa che il pubblico mi voglia vedere ancora così, non è possibile, sarei solo un fantasma del tempo che fu.
Da questo punto di vista ho avuto fortuna, avevo le idee chiare fin dall’inizio e ho evitato di essere risucchiato dal business. Ho seguito con coraggio la mia strada, mi sono evoluto come persona e come artista. Ho seguito un percorso che mi ha portato a spaziare tra generi musicali diversi. Ho semplicemente assecondato la mia natura, rallentato il ritmo e cercato sonorità diverse. Ormai ho preso atto che certi brani non riesco più a suonarli; quindi, ho interrotto le tournée che alla mia età sono pesanti, ma continuerò ad incidere in studio.
Ho avuto una carriera fantastica che ha seguito la curva della vita. Con l’età di solito si tende a rallentare, subentra una sensibilità diversa, più acuta. Qualcosa che ti consente di apprezzare dettagli prima insignificanti. Credo sia normale. Avere meno tempo davanti a te, rende il tempo che rimane più prezioso e cerchi di viverlo in modo diverso. Invece di prendere a morsi la vita, la assapori lentamente, con l’illusione di dilatare quei momenti. A livello artistico ciò che sono oggi è il risultato di una trasformazione lenta e progressiva che è iniziata con la mia carriera da solista. È per questo che posso continuare a scrivere e suonare le mie ballate orgogliosamente. La mia non è stata una ritirata dalle scene, ma una scelta ponderata e consapevole. La musica che suono oggi mi rappresenta, sono io. So che non piace a tutti, ma questo non è mai stato un problema. Piacere non è la finalità ultima di un artista. L’artista non ha altra scelta che esprimere sé stesso, incontrare il favore del pubblico è un dettaglio indipendente dalla sua volontà.
Quando sono nel mio studio con la mia collezione di chitarre le osservo e non posso fare a meno di sorridere. Con ciascuna di esse è stato un amore travolgente, ora quel sentimento è vivo ma si è addolcito. Così sono qui, con la mia chitarra preferita appoggiata sulle gambe e guardo le mie mani a cui devo tutto. Non posso che ringraziarle per tutta la musica che hanno contribuito a scrivere e a suonare finora. Le perdono per quella velocità magica a cui mi avevano abituato e che oggi non posso più sperimentare. Quell’incanto si è spezzato e non posso più evocarlo, ma finché è durato è stato bellissimo. In fondo questa è una grande lezione di vita, le cose cambiano e noi non possiamo fare altro che cambiare con loro. È inevitabile. Non ho rammarichi, in fondo io mi sono sempre sentito più un cantastorie che un musicista; perciò, finché avrò voce potrò continuare a fare ciò che amo. A voi che mi avete seguito fin qui, giuro che continuerò a suonare al meglio delle mie possibilità ciò che sento in questo mio cuore ancora dannatamente giovane.
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